Va dato atto all’onorevole Chiti (attuale Vice-Presidente del Senato) di aver saputo impostare, in termini particolarmente approfonditi e innovativi, il rapporto tra organizzazioni religiose e politica legislativa. L’approccio di Chiti non si è ridotto a un marcato indifferentismo di maniera, di tradizione laicista, né si è fermato a una sostanziale sottovalutazione del problema -cosa che accade a tutti quei critici e studiosi che subordinano i rapporti tra Diritto e Religione ad altre istanze di natura economica e politica, se non quando partitica. Se in opere precedenti (come “Laici e Cattolici. Oltre le frontiere tra ragione e fede”, Giunti, 2008) l’indirizzo di ricerca prevalente, tuttavia, era stato quello di una benevola compensazione tra la necessità di legiferare su temi di recente emersione sociale e la dottrina tradizionalmente impartita e consolidatasi, da parte della Chiesa Cattolica, in “Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo” (Giunti, 2011), lo sforzo euristico si confronta più decisamente con le ragioni di un disagio sociale sempre più radicale. L’opera di Chiti si muove appropriatamente lungo due assi fondanti: il tentativo delle organizzazioni confessionali di giungere a momenti di incontro e raccordo tra di esse, sulla scia -ad esempio- dell’ecumenismo secondo-conciliare, l’esigenza imprescindibile da parte degli ordinamenti laico-civili di conoscere e comprendere i mutamenti in atto nella demografia religiosa, culturale, etnica e comportamentale.
Nel recente studio, vengono affrontate questioni di scottante attualità: l’inedito attacco ai fedeli cristiani, e specialmente: cattolici, in quelle aree geografiche dove essi sono una evidente minoranza (in India, in Cina, tra le altre), la legittimità di un Islamismo osservante e finanche reazionario che non va mescolato al proselitismo para-religioso che taluni gruppi terroristici hanno inteso adottare, la montante evidenziazione sociale di temi che reclamano una qualche forma di disciplina normativa, in senso perlopiù inclusivistico (terapie del dolore, nuova contraccezione, diversificazione delle relazioni affettive…). Potrà osservarsi che in “Laici e Cattolici” il focus doveva apparire troppo ristretto, modellato su una critica di fondo agli esausti clericalismi e anticlericalismi di questo Paese, mentre in “Religioni e politica” lo sguardo è, forse, ampliato in modo anche troppo ricco e variegato sulla rappresentazione del religioso nei confini del politico, e viceversa. Ma si tratta di osservazioni in buona parte disattente, perché unico è il filo conduttore: la determinazione di uno spazio dialogico, orientato alla libera formazione del consenso (e della credenza di fede), come scudo alle pretese statuali nel fenomeno confessionale, alle declamate ingerenze ecclesiali nella vita politica, alla disorganica rete di rapporti che, soprattutto, i monoteismi tentano tra sé di intrecciare, volgendosi, anche sul piano “diplomatico”, al bene dell’uomo e non alla prevalenza di un orientamento sull’altro, come unico corollario delle verità professate. I fatti norvegesi dimostrano drammaticamente quanto sia indispensabile un approccio similare, che scongiuri la possibilità di strumentalizzazioni e che favorisca un pluralismo “armonicamente” conflittuale, non per forza belligerante.
Domenico Bilotti