Difficilmente Georges Simenon troverà il posto che gli spetta nelle antologie di letteratura moderna del XXI secolo. Sulla sua opera, pende, come la proverbiale spada di Damocle, una popolarità senza precedenti, al tempo della massima prolificità, e una dedizione assoluta al genere narrativo, in prevalenza giallistico (vedasi soprattutto, ma non solo, il Commissario Maigret).
Tra gli italiani che più lo hanno apprezzato e, magari, persino contribuito a divulgare o a rigenerarne di continuo la fama, andrebbero citati Enzo Biagi e Andrea Camilleri.
Il primo, che annotava con sorprendente lucidità come il commissario avesse passato indenne il nazionalismo degli anni Trenta fino alla controcultura dei Sessanta, si divertiva, poi, a mettere in luce l’aspetto genuinamente donnaiolo e anticonformistico del suo creatore, citandone a livello di grande aneddotica di costume la frequentazione di vedette, conquiste occasionali o, persino, prostitute. Certo, il grande letterato belga guarderebbe con sdegno a come legislazioni sempre più sanzionistiche abbiano finito per produrre contortamente sacche di sfruttamento e inumanità ancor più palesi (nel mezzo di una complice o distratta o inevitabile accettazione di massa), dando nerbo ininterrotto a quella umanità residuale di “poveri diavoli” che non è mai giudicata nelle pagine di Simenon, ma anzi rispettata nella sua fibra più resistente all’ingiustizia e al mediocre sciabordare dell’esistenza.
Camilleri, invece, ha di Simenon fatto un elogio, non del tutto scevro dal modo in cui viene percepito il “suo” Montalbano: una difesa della letteratura gialla e di consumo, dietro cui possono nascondersi grandi spunti e scelte stilistiche pure densamente sperimentali. Però questo elogio non ci dice ancora una cosa importante: l’apparente fissità del commissario Maigret è tale perché ha sempre da misurarsi con un’umanità di androni, volanti, portinerie, incompresi, corsi, quartieri. Essa non si modifica strutturalmente, ma nei romanzi di Simenon i progressi tecnici, le trasformazioni nei consumi e negli stili di vita, persino (a tratti) l’evoluzione del crimine, dei crimini e della criminologia non sembrano mero sfondo, raffazzonato per fare bassa scenografia a un grande spettacolo. Paiono, all’opposto, dimostrare indirettamente come la sempiterna intelligenza e umanità del commissario possano candidarsi a variabili indipendenti delle relazioni umane, quand’anche esse siano modificate o aggredite o scalfite dallo scorrere dei decenni.
L’antico anatema verso il giallo domina ancora, mentre il suo successo commerciale è cresciuto. Per qualcuno, il giallo è borghese e il noir psicologico (che pure Simenon frequentava) ha un potenziale inesplorato di critica diretta all’ordine costituito. Non sappiamo quanto sia utile una distinzione del genere: Simenon ci si riconsegna, come personaggio pubblico e anche squisitamente come narratore, principalmente da uomo libero. Che percorre e precorre i tempi, senza vergognarsi di portarsi dietro lo strumentario che più gli aggrada, a prescindere se sia o meno quello più tradizionale.
Domenico Bilotti