Qualche giorno fa, papa Francesco ha detto ai membri del Corpo diplomatico presso la Santa Sede: “La chiusura e l’isolamento creano sempre un’atmosfera asfittica e pesante, che prima o poi finisce per intristire e soffocare. Serve, invece, un impegno comune di tutti per favorire una cultura dell’incontro, perché solo chi è in grado di andare verso gli altri è capace di portare frutto, di creare vincoli di comunione, di irradiare gioia, di edificare la pace”. Benedetto XVI, nell'Enciclica Deus caritas est, scriveva: “Se però nella mia vita tralascio completamente l'attenzione per l'altro, volendo essere solamente «pio» e compiere i miei «doveri religiosi», allora s'inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto «corretto», ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio… Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento… Un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri”. Ovviamente, nessuno dei due pontefici si riferiva alla clausura, ma questa come si concilia con le loro parole? E come si concilia col vangelo? Come potrebbe una monaca di clausura soccorrere il malcapitato percosso dai briganti della parabola di Luca? Per conferire fondamento evangelico alla clausura ci si appella vanamente all'episodio di Marta e Maria: “Marta… si fece avanti e disse: « Signore, non vedi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque di aiutarmi ». Ma Gesù le rispose: « Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi di troppe cose. Invece una sola è la cosa necessaria.Maria ha scelto la parte migliore, che nessuno le toglierà ».” (Lc 10, 40-41). Ma la “cosa necessaria” non era il semplice fatto in sé che Maria si fosse “appartata” con Cristo, ma di ascoltare, in quel momento, la sua parola, per comprenderla appieno e metterla in pratica: “Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (cf Gv 13,17).
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