Che dirle, gentile carmelitana scalza, se non ripeterle che provo, per ricorrere ad un termine non offensivo, tenerezza per lei? Non invidio la sua condizione: le è permesso criticare chi critica (garbatamente, civilmente, evangelicamente) la Chiesa, chi cerca di correggerne gli errori, ma non le è permesso di criticare la Chiesa. Questa, mi dice, per lei è come la mamma alla quale si obbedisce sempre. Di norma, però, dovrebbero essere i bambini ad obbedire in ogni caso alla mamma; gli adulti, essendo persone responsabili, avendo una coscienza propria (non quella della madre) non dovrebbero obbedire alla mamma se la mamma ordina cose ingiuste. A quanto ho capito, se lei ritiene che la mamma dica cose ingiuste, non può farglielo notare. Le non può dire ciò che pensa se ciò che pensa “non combacia” (cito le sue parole) con ciò che pensa la madre (Chiesa). Diciamo che lei ha scelto liberamente di non essere libera: non è libera di esprimere le sue opinioni, tranne che queste non siano identiche alle opinioni della madre. Liberamente ha scelto di non essere libera di parlare. Io credo, invece, che dovrebbe essere orgoglio d’ogni donna e d’ogni uomo dire a voce alta se una cosa è giusta o ingiusta, e fare, soprattutto, solo ciò che si ritiene giusto. Lei scrive: “Se mia madre mi dice quel che devo fare, io le obbedisco, anche se talvolta posso avere idee mie che non combaciano con le sue, e obbedisco per amore“. Per amore verso chi? Verso la madre? E se la madre le ordina di fare una cosa ingiusta? Lei obbedisce alla madre, anziché alla sua coscienza? Coloro che qualche secolo fa (non molti) torturavano donne innocenti affinché confessassero d’essersi unite carnalmente al demonio, e le mandavano al rogo, obbedivano per amore? Si chiama amore questo? Riguardo al mio libro su Fatima, so che non lo leggerà. Per timore, non lo leggerà. Lo stesso timore che spingeva Cesare Cremonini e non guardare nel cannocchiale di Galileo.
Renato Pierri
