Il 25 Aprile del 2012 saranno trascorsi vent’anni dalla tragica morte dell’intellettuale cattolico Ernesto Balducci. Una perdita il cui senso si è aggravato negli ultimi due decenni, dal momento che si è ridimensionato, fino a prender pieghe opposte, il fermento culturale infra-ecclesiale; nondimeno, è peggiorata la qualità del dibattito mainstream sulla laicità, lasciando campo aperto ad una parallela sottovalutazione di tematiche come il disarmo, la pace, la tutela dei diritti umani, tanto in chiave giurisdizionale quanto in chiave formativa, educativa, concettuale.
Almeno due immagini, due luoghi, del pensiero balducciano hanno conquistato una netta riconoscibilità: l’idea dell’insularità dei monoteismi maggioritari, quando sentono il rapporto con l’altro da sé come difesa di una rocca in un mare altrui di gocce ostili; la posizione, difesa in senso “normativo”, di prescrizione morale, dell’umanesimo planetario, dello scardinamento dei nazionalismi identitari e dell’eurocentrismo metodologico e culturale.
Un planetarismo siffatto non piantava bandiere ipocrite nel campo dell’utopia, anzi poneva a possibile fondamento della propria capacità espansiva alcuni pre-requisiti epistemologici tipici della politica, della cultura e del diritto occidentali: lo Stato di Diritto, appunto, declinato con una certa attenzione ai diritti sociali e alla solidarietà; le acquisizioni bio-mediche e tecniche del progresso scientifico, senza seguire la via facile del “regresso alla spelonca” che pure alberga in alcune tesi dell’umanesimo degli ultimi decenni; il primato della determinazione di coscienza rispetto all’imposizione legislativa ingiusta (quest’ultimo punto corroborato da una vera pratica personale: la lotta per l’obiezione di coscienza al servizio militare, l’obiezione assiologica alla società dei consumi, il riconoscimento della libertà di coscienza nel diritto canonico secondo-conciliare e post-conciliare).
Non è qui il caso di entrare nel merito di queste argomentazioni, che tanti margini di riflessione collettiva possono restituire e lasciare al dibattito contemporaneo; semmai, mette conto rinvenire in Balducci un adeguato pluralismo metodologico, che ha avuto pochi eguali nel pensiero cattolico-democratico, anche negli stessi ambienti in cui avviene la formazione del Balducci (gli ambienti progressisti cattolici fiorentini a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta).
Nell’autore toscano, ad esempio, l’elaborazione sul diritto pubblico italiano risente del proficuo rapporto col socialista Lelio Basso, non a caso tra gli artefici e gli ispiratori degli artt. 2 e 3 della Costituzione italiana ed autorevole esponente di una frangia critica rispetto all’approvazione dell’art. 7 sui rapporti tra Stato e Chiesa.
Sull’obiezione di coscienza, segue le posizioni di Don Milani e da queste riesce a maturare una più elaborata prospettiva teorica sul disarmo trans-nazionale: la massimizzazione dell’obiezione alle armi significa, in ultima istanza, un mondo senza eserciti; un mondo senza eserciti non è probabilmente ancora un mondo a-conflittuale, ma certamente è un mondo senza guerre.
Nell’analisi etologica e antropologica, Balducci risente dell’opera di Chomsky, non tanto come intellettuale radicale statunitense, antimilitarista ed ecologista, ma, più da vicino, come linguista che appronta una grammatica generativa insieme più ampia e più rigorosa della grammatica tradizionale.
In Balducci, v’è, poi, profonda ammirazione per il lavoro di Bateson, saggista poliedrico che, tra gli altri meriti, ha concepito un’elaborazione sistematica del dramma della schizofrenia, senza abbandonarsi all’opzione tendenzialmente pessimistica di Karl Jaspers per cui il disturbo mentale sarebbe per propria definizione e struttura semplicemente insondabile (perciò, forse: irrimediabile, il che, paradossalmente, rischia di prestarsi al rischio della coercizione arbitraria del soggetto curante sul curato).
Stessa ammirazione contraddistinse gli studi su Gandhi e la teoria della nonviolenza, ai quali può esser al più rimproverata un’accettazione tanto inclusivista e genuina da non tenere in debito conto le cause sociali di esteriorizzazione della violenza e le possibili migliorie teoriche che il modello gandhiano avrebbe meritato di avere (su questa scia, si noti anche il lavoro di Turoldo, che condivideva col Balducci una prospettiva garantista e riconciliante sulla stagione dell’eversione politica).
Davanti a tante pagine da rileggere, a tante etichette che andrebbero riscritte, valga qui aver sbozzato almeno le opzioni metodologiche che dal pensiero di Balducci meriterebbero di esser riproposte, con ben altra radicalità di quella suggerita da molta pubblicistica attuale, nel dibattito intorno alla sua figura, meritoriamente rinvigorito.
Domenico Bilotti