I cento anni dalla nascita di Mario Pannunzio avevano sollevato qualche polemica nell’intellettualità liberale italiana: in sostanza, si cercava di stabilire chi avesse più titolo a festeggiare che cosa. In realtà, la figura di Pannunzio, sperimentale nelle forme espressive e poco tradizionale nei contenuti veicolati nei decenni, ben può prestarsi a interpretazioni diverse e a considerazioni di varia natura, parimenti soddisfacenti se hanno il merito di concentrarsi su aspetti singolari, inediti, o se riescono a proporre un’analisi, all’opposto, di più largo respiro, calando la figura dell’intellettuale in un periodo storico di rara drammaticità, ma anche di grande poliedricità, speranza riformatrice e mutamenti socio-culturali. Giova ancora una volta richiamare “Pannunzio. Dal Mondo al partito radicale: vita di un intellettuale del Novecento”, di Massimo Teodori (Mondadori, 2010), non fosse che per l’attitudine del testo a tessere una trama complessa di relazioni tra l’attività giornalistica e quella politica. La nota tipica delle iniziative editoriali di Pannunzio, pur contestualizzabili in una specifica declinazione del liberalismo politico, consiste verosimilmente nel saper aggregare intorno a sé un insieme di personalità, della politica, della cultura, persino della cinematografia, dal forte profilo antidogmatico. Si impone, come pure Teodori fa, l’essenziale considerazione di almeno tre distinti periodi, di grande dinamicità culturale e di entusiasmo politico: l’esperienza di giornalista nel periodo del Regime, dove Pannunzio sconta numerose volte le Forche Caudine della censura, pur non essendo nella frangia degli autori maggiormente perseguitati dal Fascismo; la redazione de “Il Mondo”, portatore di una densissima attività convegnistica che esige la formula giuridico-associativa del club riformatore, “Gli Amici del Mondo”; l’espresso impegno in forme partitiche organizzate, il Partito Liberale prima e quello Radicale poi. Proprio questo passaggio, appare, ideologicamente, assai meritorio: Pannunzio e il gruppo che sarà in breve l’ossatura del ceto dirigente del PR comprendono come l’aggettivazione “liberale”, in Italia, stia nuovamente rischiando di diventare sinonimo di “conservazione”, di “tattica”, di moderati disegni modificativi, disposti e organizzati in pieno accordo con le classi egemoni e i gruppi di pressione più corporativi. Il liberalismo, che tra XIX e XX secolo, aveva, pur con qualche illusione, iniquità e insoddisfazione, motivato la crescita economica e sociale di numerosi stati europei, non è movimento della “conservazione”: è trasformazione trasparente, suffragista, è una linea di sviluppo e implementazione (mai così urgente in Italia!) delle libertà politiche. In questo sta l’intuizione di Pannunzio e degli altri, in ciò risiede la giusta scelta di quella sinistra liberale che, riconnessasi sentimentalmente al partito radicale storico, si avviava a una scissione epocale dal liberalismo conservatore e incline, sin da subito, alla politica filogovernativa. Un ultimo cenno, di cui lo stesso Teodori dà ben conto: la lotta di Pannunzio contro la cementificazione e la speculazione edilizia nella Roma del “generone”. Per un decennio l’Italia parve la Repubblica del “sacco”: il “sacco edilizio” che univa Roma a Palermo, da Napoli a Torino. Gli amici del Mondo lo avevano compreso.
Domenico Bilotti