LA LEGGE SUL FINE VITA ESTENDERA’ LO SCISMA IN ATTO TRA I CATTOLICI

di Noi Siamo Chiesa

E’ ripresa in questi giorni la discussione in parlamento sul testamento biologico (o disposizioni anticipate di trattamento – DAT – espressione usata da chi non vuole attribuire alla volontà dichiarata per il proprio fine vita un carattere vincolante). E’ un grande tema, che tocca le cosiddette “questioni al limite” riproposte negli ultimi anni perché la scienza medica ci permette di vedere meglio quei “processi per cui una cosa o persona finisce e comincia qualcosa d’altro” e di poter usufruire di “strumenti capaci di spostarli, maneggiarli, utilizzarli per gli scopi che ci sono utili o necessari”. Il nostro Paese è arrivato in ritardo a questa discussione. Essa si è poi svolta sulla base di ideologismi, di emozioni e contrapposizioni che, in gran parte, hanno avuto origine in altre vicende o campagne, tutte con al centro problemi di bioetica nel loro rapporto con la legislazione. Si è così creata una contrapposizione, che sembra insanabile, tra l’etica della sacralità della vita biologica e l’etica della qualità della vita biografica. Sono questioni che, invece, dovrebbero essere trattate da tutti con cautela: esse sono infatti cariche di risonanze, anche di carattere simbolico, su come vorremmo orientare la nostra società e la nostra vita personale. Ciò premesso, per l’importanza che il problema ha in sé e anche per quella che ha assunto in questi mesi nel nostro Paese, cerchiamo di fare alcune riflessioni con particolare attenzione alle posizioni assunte dalla Conferenza episcopale italiana. E’ a partire dalla nostra convinta presenza nella Chiesa cattolica che ci permettiamo di esprimere posizioni critiche sulle scelte e sulle argomentazioni che, in questi mesi e su questo problema, sono state espresse dai vertici ecclesiastici del nostro Paese. Ci sembra infatti che un’assenza di ascolto, all’interno e all’esterno della Chiesa e un’insufficiente approfondimento dei problemi siano alla base di prese di posizioni che ci sembrano non sufficientemente meditate.

L’abbandono della linea del Magistero: la ‘svolta’ della Cei con i casi Welby e Englaro
Al fine di confutare la confusione concettuale e terminologica diffusasi in questi ultimi mesi nelle campagne mediatiche che ci sono state, ci sembra che il rifarsi al paragrafo “Eutanasia” del Catechismo della Chiesa cattolica (CCC del 1992) sia la cosa più efficace, oltre che la più “ortodossa”. Il numero 2276 tratta del rispetto particolare dovuto alle persone in condizione di minorità; il numero 2277 condanna esplicitamente l’eutanasia diretta che “consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate e prossime alla morte”; il numero 2278 dovrebbe, da sé solo, inquadrare bene il problema di cui ci stiamo occupando, offrendo orientamenti chiari. Ci pare che sia efficace la definizione che vi si dà di accanimento terapeutico: esso esiste qualora comporti “procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi”. In presenza di una tale situazione si possono interrompere le cure sulla base della decisione del paziente e, qualora egli sia incapace, di coloro che ne hanno legalmente il diritto. Il gesuita Padre Mario Beltrami ha fatto una disamina rigorosa di questo ‘passo’, sostenendo in particolare che esso trova il “suo fondamento non in motivazioni di fede religiosa, qualunque essa sia, ma in argomenti puramente razionali”. Nell’esame della sproporzione tra le procedure mediche e i risultati attesi, indicata dal numero citato, il Beltrami implicitamente risolve il caso Englaro in modo opposto alla posizione ufficiale assunta dalla Conferenza episcopale italiana (CEI). Egli scrive anche che “se si è chiamati a vivere con dignità, si deve anche poter morire con dignità” e afferma con forza a chi spetta decidere. Il numero 2278 e l’approfondita analisi che di esso fa il Beltrami ci sembra siano la base per fondare una normativa sul testamento biologico largamente condivisibile da diversi orientamenti culturali ed etici. Prima la “Dichiarazione sull’eutanasia Jura et Bona” del 5 maggio 1980 della Congregazione per la dottrina della Fede (prefetto il Card. Franjo Seper e segretario Mons. Jérome Hamer) aveva già esposto con chiarezza i principi generali, ripresi poi nel Catechismo sia per quanto riguarda il consenso dell’ammalato, sia l’accanimento terapeutico. Nella stessa direzione vanno gli interventi del cardinal Carlo Maria Martini. Il magistero successivo al Catechismo conferma una linea che, con scarsa avvedutezza, è stata poi abbandonata a partire dalle note vicende relative ai casi Welby ed Englaro. Infatti, l’autorevole Carta degli operatori sanitari del 1995 emessa dal competente Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari nei suoi paragrafi 119-121 riprende i contenuti del Catechismo. In particolare, idratazione e alimentazione, artificialmente amministrate, vengono considerate “cure” che si possono sospendere quando risultino “gravose” per l’ammalato (paragrafo 120, terzo comma). A esse bisognerebbe aggiungere la ventilazione forzata. Davanti a tanta chiarezza non c’è che da meravigliarsi che nel dibattito in corso questi testi e questi autorevoli interventi siano pressoché ignorati. Ma soprattutto c’è da meravigliarsi per l’abbandono da parte della gerarchia italiana di una linea del magistero coerente e tracciata da tempo. Che cosa ha determinato un tale cambiamento di rotta? Perché si finge una continuità quando invece è stata introdotta una discontinuità senza offrire spiegazione alcuna? Quale che sia la risposta a questi interrogativi, i dubbi sulla linea attuale della Cei e sulla sua ‘campagna’ sul caso Englaro stanno iniziando a diffondersi anche in strutture importanti della Chiesa e si può sperare che un inevitabile cambiamento di posizioni (cioè un ritorno a quelle precedenti) avvenga rapidamente e non dopo anni di estenuanti polemiche e tensioni, interne ed esterne, prima di un inevitabile futuro “pentimento”. Come reazione pacata alla “campagna” dei vertici della Cei è utile ricordare il documento dei proff. Stefano Semplici, Carmelo Vigna e Gianpaolo Azzoni del Centro di Etica Generale e Applicata (Cega). Essi mettono in guardia dalla “forzata e rischiosa trasposizione del bipolarismo del sistema politico in corrispondente bipolarismo bioetico, a sua volta interpretato nei termini della logora contrapposizione tra laici e cattolici”. Essi sostengono che “non esiste ‘il’ problema del fine vita, ma un fascio di questioni diversificate e complesse” e che bisogna “ricercare l’equilibrio tra due principi irrinunciabili dal punto di vista costituzionale: la tutela della vita come “interesse della collettività” e “la libertà con la quale ogni individuo decide il senso e l’orientamento della sua esistenza”. Il testo conclude sostenendo come occorra “evitare che una sovraesposizione di casi-limite e questioni di forte impatto ‘simbolico’ funzionino da strategia elusiva delle responsabilità e delle urgenze più pressanti in tema di difesa della vita. Il diritto alla vita non è lo stesso nei Paesi ricchi e nei Paesi poveri. Ma anche nei primi rimangono o si accentuano le differenze”. E ancora: “Bisogna considerare la “necessità di garantire l’equa distribuzione delle risorse indispensabili a una efficace e ‘giusta’ tutela del diritto alla vita, in tutte le fasi e in tutte le condizioni dell’esistenza umana”. Nei confronti della ‘svolta’ operata dai vertici non sono mancate parole chiare e forti provenienti dalla ‘base’ cattolica, anche se esse sono poco conosciute. Ricordiamo il documento dell’8 ottobre 2008 che ha raccolto, soprattutto online, quasi duemila firme e quello del 23 marzo del 2009, sottoscritto da 41 preti e che ha provocato la nervosa reazione della Congregazione per il clero, che ha chiesto ai vescovi competenti di intervenire presso i firmatari per “accertare la loro ortodossia”.

E’ necessaria una riflessione serena sul fine vita
Risulta poco comprensibile negli interventi di parte ecclesiastica e nel ddl votato dal Senato nel marzo 2009 l’accanita volontà di intervenire sul fine vita da una parte con tecnologie sempre più sofisticate e invasive, dall’altra con interventi autoritari di tipo legislativo. Questi interventi puntano a impedire, in casi estremi, la dignità del morire e, soprattutto, una vera libertà dell’ammalato nel poter veramente disporre di sé stesso, in particolare nel caso di perdita della conoscenza, attribuendo al personale medico un potere di decisione eccessivo (e non gradito). Ciò ci sembra tanto più inaccettabile quando questa difesa della sopravvivenza a ogni costo e con ogni mezzo e lo scarso rispetto di chi vi è coinvolto viene da quanti dovrebbero avere sulla fine della vita la convinzione che si tratti di un ‘passaggio’ a una condizione migliore, come conseguenza di un disegno provvidenziale. A questo proposito sono esplicite le parole di Paolo VI indirizzate nel 1970 ai medici cattolici. A volte, nei sostenitori delle posizioni prolife a ogni costo sembra quasi di trovarsi di fronte a ragionamenti che riflettono una cultura ‘materialista’, ostile al compimento del cammino della creatura umana, attaccati alla prosecuzione a tutti i costi della vita terrena come se, oltre, non vi fosse nulla. Ancora Padre Beltrami sostiene che “il problema di fondo sta, in definitiva, nell’educazione, sia della classe sanitaria, sia dei singoli individui, ad accogliere la morte come parte integrante della vita”. Le autorità ecclesiastiche in Italia, oggi, sembrano invece lontane da una riflessione più generale, anche religiosamente ispirata, e sembrano invece ossessionate dalle cosiddette “derive di tipo eutanasico”. Esse sarebbero la conseguenza dell’orientamento ormai prevalente nelle sentenze della magistratura e dell’eventuale approvazione di una legge tipo quella proposta dal senatore Ignazio Marino, che noi troviamo invece equilibrata e completa. E’ la paura di una società europea secolarizzata che si estenderebbe al nostro Paese e nei confronti della quale bisognerebbe fare argine. Questa paura irrazionale cresce – noi riteniamo – a prescindere dal merito dei problemi concreti, sulla base di una preconvinzione che ci sia un progetto della cultura “laicista” e radicale per isolare il mondo cattolico col rifiuto del suo messaggio di tipo “antropologico” e della validità generale che esso avrebbe, a prescindere da fedi o da valori religiosi. E’ questa la sensibilità del ‘Partito’ che è orientato in particolare dal cardinale Camillo Ruini e, almeno fino a oggi, da Avvenire e che ispira a tutt’oggi la linea della Cei, ovviamente all’ombra della Segreteria di Stato. Le “derive” sono soprattutto il frutto di queste paure. A noi sembra giusto non perdere il senso vero di ciò di cui si sta discutendo. E siamo d’accordo con il giornalista Pierluigi Battista secondo cui sarebbe del tutto fuori luogo “l’allarme globale e incontrollabile” che si vorrebbe trarre da disposizioni ben definite riguardanti una fattispecie ben individuata: quella della “formulazione anticipata della propria volontà con procedure certe e sicure”.

Per un diverso rapporto con la cultura laica
I nostri dubbi su questa posizione rigida diventano una forte preoccupazione se estendiamo la riflessione al più generale ruolo evangelizzatrice della Chiesa e al suo rapporto/dialogo col ‘mondo’. E’ proprio vero che, con le culture diverse dalle nostre (o ideologie, se così le si vuole chiamare) non si possa stabilire un percorso di ricerca comune sui nuovi problemi etici e legislativi, anche complessi, che sono imposti dal progresso tecnicoscientifico? Troviamo tra i ‘laici’ (o ‘laicisti’) solo nemici della vita, oppure soggetti – anche se, forse, non tutti – disposti ad ascoltare, qualora la Chiesa cattolica non si presenti loro come unica e pretenziosa maestra di antropologia, invece che annunciatrice e serva della Parola che manifesta la rivelazione di Dio destinata a tutti i popoli? Se si vogliono utilizzare argomenti razionali ci si pone su un piano diverso da quello connesso con l’annuncio di Cristo risorto, che rappresenta il proprium della missione della Chiesa e si entra in campi dove è inevitabile incrociare le competenze di altri, che pure ricorrono, legittimamente, ad argomenti fondati sulla ragione. Se poi si pretende di avere il monopolio nel decidere per tutti cosa si debba intendere per “natura” (avente in sé valore ontologico), si può legittimamente obiettare che l’idea della natura è cambiata molto nel tempo e nello spazio, persino nell’insegnamento della Chiesa e che i suoi ‘punti fermi’ sono sempre più discussi. Un’altra questione di lunga data che poniamo alla nostra Chiesa, e che ha riflessi importanti nel rapporto con la società ‘laica’, è quella del rapporto tra norma, etica e legge. Essa si ripropone continuamente per l’incapacità di ascoltare veramente le riflessioni che, in merito, hanno percorso tutta la storia dei cattolici democratici. La differenza tra peccato e reato, la legge come strumento per affrontare situazioni e conflitti e non per vincere battaglie ideali o ideologiche, la necessità della mediazione una volta definito il quadro generale dei principi e dei valori (Costituzione) sono le costanti consolidate di una posizione culturale e ideale che meriterebbe finalmente di essere fatta propria da tutto il cattolicesimo italiano. Ma non è così. Neppure considerazioni di tipo prettamente pastorale, che avrebbero dovuto ispirare moderazione, hanno impedito vere e proprie invasioni di campo e un intreccio tra etica religiosa e legge che, in troppe occasioni (legge sullo scioglimento del matrimonio, legge n. 194, legge n. 40, progetti di legge sulle unioni di fatto) le nostre gerarchie hanno ricercato e che i cattolici di ispirazione conciliare hanno sempre contrastato, ottenendo, quasi sempre, molti consensi di base. Ci piace ricordare che Aldo Moro, nel 1974, dopo il referendum sul divorzio, durante il Consiglio nazionale della Dc mise in guardia contro le forzature mediante “lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e di disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani” e consigliò di “realizzare la difesa di principi e di valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi”. In conclusione, siamo convinti che la ‘campagna’ avviata sul caso Englaro e ora in corso sulla legge in discussione alla Camera e le demonizzazioni conseguenti (tutto è bianco/bianco, oppure nero/nero) non servano alla società italiana e alla vera missione della nostra Chiesa. In questa direzione confortano la nostra argomentazione le parole severe e accorate di un maestro come Arturo Paoli e anche quelle di Claudio Magris e di altri. Soprattutto, è deplorevole l’ostilità aspra e diretta da parte di molti cristiani, a partire dalle massime autorità gerarchiche, nei confronti di Beppino Englaro che è stato costretto a dichiarare, amareggiato: “La Chiesa sa di avere il mio rispetto e io credo di non avere avuto il suo”.

I medici e il buon senso sono contro il disegno di legge Calabrò
Entrando in modo più specifico nella questione più controversa del ddl Calabrò ci sembra che “contra factum non valet argumentum”. Ci meraviglia come si possa sostenere che l’idratazione e l’alimentazione di pazienti in stato vegetativo permanente non debba essere considerato un trattamento sanitario e, quindi, debba sfuggire alle indicazioni contenute nelle DAT. La descrizione fatta da un clinico tra i tanti non dovrebbe lasciare dubbi, così come le posizioni ufficiali delle società scientifiche, il documento della FNOMeO (Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e Odontoiatri) e il sondaggio svolto recentemente tra i chirurghi. Ci chiediamo perché mai debba essere necessario continuamente ricorrere a queste autorità per spiegare e convincere su questo punto come se non fosse sufficiente il semplice buonsenso dell’uomo della strada, debitamente informato, per capire che ci si trova di fronte a trattamenti solo sanitari e, quindi, alla fattispecie ipotizzata dal numero 2278 del CCC in materia di procedure mediche straordinarie. Non a caso, i sondaggi d’opinione sul testamento biologico e sul caso Englaro indicano che l’opinione pubblica ha una posizione del tutto diversa da quella che è prevalsa nella discussione al Senato nel marzo 2009. In particolare, ci chiediamo il perché di questa ossessionante insistenza dei vescovi e delle associazioni da essi promosse (tipo ‘Scienza e Vita’) sul fatto che idratazione e alimentazione di persona in stato vegetativo permanente e definitivo sarebbero “sostegno vitale”, che non si devono sospendere e che sono tali, quindi, da non ricadere nella chiara nozione di accanimento terapeutico. Questa ‘campagna’ ha assunto anche caratteri che si collocano al di fuori di ogni comportamento razionale e di ogni buon gusto. Si pensi solo alla proclamazione da parte del Governo di una ‘Giornata nazionale degli Stati Vegetativi’ per lo scorso 9 febbraio, secondo anniversario della morte di Eluana (Beppino Englaro aveva invece proposto una “giornata del silenzio”). Una terminologia che solitamente viene utilizzata nei documenti del magistero è quella di “morte naturale”: si dice sempre che la vita umana deve essere tutelata “dal concepimento alla morte naturale”. Ma, negli ultimi decenni, i progressi nel campo della medicina e della farmacologia hanno consentito di interferire pesantemente proprio nel processo della “morte naturale”. L’exitus che fino a poco tempo fa avveniva in termini temporali relativamente brevi, oggi può essere allontanato in maniera indefinita, pur senza alcun miglioramento sostanziale della vita e della sua qualità per il paziente. Ora, è possibile ancora utilizzare il termine “morte naturale” a fronte di sistematici e diuturni interventi artificiali, non solo attraverso l’idratazione e l’alimentazione forzate (enterale o parenterale), ma anche attraverso consistenti dosaggi di farmaci, altrettanto necessari, che vengono somministrati per le medesime vie? Insomma, vi è un limite o no? Nei salmi si dice “fino a quando Signore”? In termini cristiani è pensabile che sia volontà del Signore, padrone della vita come usa dire, sostenere in maniera indefinita, artificialmente, una sopravvivenza solo di tipo biologico che rimane, senza alternative, inchiodata alla prossimità dell’exitus?

Una legge sul fine vita è necessaria
Per anni, la linea dei vescovi è stata quella di ritenere inutile una legge sul fine vita, preferendo una situazione indeterminata in cui non vi fossero diritti e doveri ben definiti e senza procedure certe a cui fossero tenuti i soggetti coinvolti (personale sanitario, famigliari e pazienti). La svolta si è avuta nel luglio del 2008 in conseguenza della sentenza della Cassazione, dopo un interminabile iter giudiziario, sul caso Englaro. Il timore che il problema fosse risolto per via giurisprudenziale e in senso contrario alla posizione dei vescovi è ciò che ha portato al nuovo orientamento, che è stato deciso nel Consiglio episcopale permanente della Cei nel successivo mese di settembre. Da allora, questa posizione è diventata la linea della maggioranza di Governo ed è stata conosciuta, da una larga parte dell’opinione pubblica, in relazione al caso Englaro. I contenuti del ddl Calabrò, infatti, sono del tutto omogenei alle sollecitazioni della Cei. Che una legge fosse necessaria, da troppo tempo lo si diceva. Al di fuori delle ideologie, con le nuove possibilità terapeutiche in materia di respirazione, idratazione e alimentazione artificiali si è enormemente estesa l’area di discrezionalità (e di responsabilità non gradita), attribuita nei fatti, soprattutto nei reparti di rianimazione, al personale sanitario, spesso in condizione di solitudine. Si è così creata una zona ‘grigia’ nel fine vita in cui decisioni fondamentali di vita e di morte non si capisce perché debbano essere affidate, soprattutto in caso di incidenti, a medici e/o a famigliari in modo quasi sempre improvvisato e casuale, o con prassi del tutto diverse da presidio a presidio sanitario. E’ necessario, quindi, che ognuno possa dare indicazioni preventive nel caso che venga a trovarsi in condizioni di incoscienza e che la sua volontà venga fatta rispettare mediante l’autorità di una disposizione normativa cogente. Nell’attuale assenza di una legge, situazioni come quella di Eluana Englaro sono destinate a ripetersi. La cronaca dello scorso novembre ci informa che una situazione, analoga dal punto di vista sanitario, è stata risolta dal marito della malata con un viaggio in Olanda, dove la moglie ha potuto chiudere i suoi giorni. Il marito non si è sentito in grado di affrontare anni di procedure giudiziarie. La donna, che si chiamava Anna Busato, aveva da tempo redatto, e più volte ripetuto, un testamento biologico.

I testamenti biologici ‘autorganizzati’
Nell’attuale vuoto legislativo (che, in Europa, esiste solo nel nostro Paese) e come reazione alla possibile approvazione definitiva del ddl Calabrò, da quasi due anni molti si sono posti il problema di come certificare la propria volontà a futura memoria nel caso di malattia che li privasse in modo permanente della coscienza. La raccolta autorganizzata di testamenti biologici, che vuole avere anche l’intento di influire sull’opinione pubblica, è diventata operativa per iniziativa di molte amministrazioni comunali (tra queste Torino, Firenze, Pisa, Genova, Bologna, Perugia). La Chiesa valdese per prima ha pure lanciato la raccolta dei testamenti dei propri fedeli e di quanti accettano di rivolgersi a lei a questo scopo. Questi testamenti non hanno una diretta efficacia giuridica, ma “senza altri strumenti previsti dalla legge, ben venga il registro dei testamenti biologici: esso annota decisioni da rappresentare ai medici in caso di bisogno; evita complicate ricostruzioni della volontà di persone che hanno perso la capacità psichica, come nel caso di Eluana”. Tre ministri (Interno, Salute e Lavoro) hanno cercato di bloccare i Comuni con una apposita circolare (del 19 novembre) che risulta ridicola, se si pensa che sono in gioco valori costituzionalmente garantiti. Anche nei confronti di queste iniziative spontanee si è attivata, con la consueta asprezza di toni, la campagna dei vertici ecclesiastici e dell’Avvenire. Un altro tentativo di affrontare il vuoto legislativo è stato fatto a Firenze (ma anche altrove) dove l’autorità giudiziaria ha concesso a una persona che ne aveva fatto richiesta la nomina di un “amministratore di sostegno” per fare rispettare la sua volontà nel caso perdesse in via definitiva la coscienza. Si tratta di un istituto, sorto nel 2004, soprattutto per affrontare questioni di tipo prevalentemente economico. Anche in questo caso è stata molto critica la posizione dei prolife, perché questa interpretazione della legge “di fatto rappresenta l’anticamera dell’eutanasia”.

La volontà del paziente
Oltre a quella di ritenere “sostegno vitale” l’idratazione e l’alimentazione di paziente in coma vegetativo permanente, l’altra condizione sine qua non per accettare una legge sul fine vita posta dal Consiglio episcopale della Cei riguarda la volontà del paziente. Essa dovrebbe essere in qualche modo “controllata” o “condizionata” per evitare che si possa andare nella direzione della cosiddetta “deriva eutanasica” (si veda l’art. 7 del ddl Calabrò che consente al medico di disattendere le indicazioni contenute nella DAT). Ci sembra, invece, che bisognerebbe affrontare il problema in modo rovesciato e riflettere qui, come in altre situazioni eticamente rilevanti, a partire dal ruolo della coscienza del soggetto interessato che fonda il suo diritto all’autodeterminazione. E’ necessario ricordare quanto il primato della coscienza sia valore cristiano (Gaudium et Spes, numero 16 e Dignitatis Humanae, numero 3)? Esso deve essere uno dei pilastri del nuovo modo di vivere il Vangelo dopo la riforma conciliare e non può essere contraddetto nei fatti. Ci sono tante riflessioni preziose che lo hanno chiarito ed approfondito e proprio in occasione del dibattito in corso. Sulla autodeterminazione del paziente e sull’obbligo di rispetto della sua volontà si fonda la posizione che si è affermata nella gran parte dei paesi europei negli ultimi dieci anni (in Spagna nel 2003 e in Francia nel 2005 e negli USA), che hanno leggi in merito o una ben definita giurisprudenza (Regno Unito). In contraddizione con la linea dei vescovi è anche il Codice di deontologia medica della FNOMeO (del 16 dicembre 2006) che, all’art. 35 ultimo comma, dice: “Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”. Interessante è la situazione nella Repubblica Federale Tedesca, paese dove, per anni, il problema è stato ampiamente dibattuto in organizzazioni di base, dal personale sanitario, in sentenze, nelle Chiese e, infine, nel parlamento. Pare che siano circa nove milioni le Dichiarazioni di fine vita (Patientenverfugung) già formalizzate. Alla fine il Bundestag ha approvato, il 18 giugno 2009, modifiche al codice civile tedesco che sono entrate in vigore il primo settembre successivo. Esse sono il frutto di un’opinione pubblica molto informata che, per il 73% secondo i sondaggi, si è convinta che la decisione del paziente deve avere valore vincolante e che idratazione e alimentazione per pazienti in stato vegetativo permanente sono da considerarsi trattamenti sanitari. La Chiesa cattolica e la Federazione delle Chiese evangeliche sono state protagoniste di questo percorso. Nel 1999 (con alcune correzioni nel 2003) esse proposero congiuntamente a tutti i loro fedeli il Christliche Patientenverfugung. Questo testo, tradotto e diffuso nel nostro Paese nei giorni del caso Englaro, è stato fondamentale per prendere coscienza che le due condizioni della Cei per una legge sul fine vita non potevano essere considerate qualcosa di simile a una verità di fede o di inerente alla “natura stessa dell’uomo” o alle supreme questioni della vita e della morte e quindi “materia non negoziabile”. Questo testamento biologico ‘cristiano’ è già stato sottoscritto, a quanto si sa, da quasi tre milioni di cittadini tedeschi. E le principali disposizioni che contiene sono molto diverse, quasi opposte, a quelle sostenute dai nostri vescovi (e dal ddl Calabrò). In molti si sono chiesti come sia possibile, in una Chiesa che si pretende monolitica in tutto il mondo in materia dottrinale e morale, un tale consenso corale a queste posizioni della Chiesa tedesca su linee del tutto diverse da quelle considerate dai nostri vescovi irrinunciabili. Perlomeno, ci dovrebbe essere, da parte della Cei, più cautela e una posizione più riflessiva. Un antico adagio, venuto alla luce nell’ambito della Chiesa e forse utilizzato anche al di fuori di essa, così recita : “In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas” (“nelle cose necessarie l’unità, nelle cose dubbie la libertà, in ogni cosa la carità”). Nella materia che stiamo trattando, quante sono le domande senza risposta che onestamente dobbiamo ammettere? E come è possibile per una Chiesa “appellarsi a Cesare” perché con la sua legge produca l’operazione di far diventare necessario “erga omnes” ciò che è ancora avvolto nel dubbio, anche al proprio interno? Come è possibile chiedere che venga dichiarato non vincolante il “consenso informato”, quello che è ormai diventato da molto tempo, anche per il magistero tradizionale della Chiesa, oltre che nella deontologia medica, un assunto indiscutibile? E come è possibile attribuire allo stato un tale potere di interferenza nella vita, nella sofferenza e nel fine vita di tutti i cittadini, prescindendo dal loro consenso?

Fine vita e Costituzione
Infine, nel dibattito di questi mesi, con approfondimenti difficilmente contestabili, è stato molte volte detto che il ddl Calabrò contraddice articoli ben definiti della nostra Costituzione, tanto da fare ritenere probabile una futura censura da parte della Corte Costituzionale se non verrà modificato dalla Camera. Sono gli stessi articoli (2, 13 e 22) ai quali si è appellata la citata sentenza della Cassazione sul caso Englaro. Sulla base di questi articoli, progressivamente negli anni “si è attribuito un valore prioritario al consenso informato della persona, si è operata una redistribuzione di poteri, si è individuata un’area intangibile dall’esterno, si è sottratta la vita alla prepotenza del potere politico e alla dipendenza dal potere medico. Ora, invece, stiamo assistendo alla restaurazione del potere medico nelle forme di una asimmetrica “alleanza terapeutica” dove il morente e i suoi famigliari non sono lasciati soli nel fiducioso dialogo col medico ma consegnati all’esecutore di una impietosa volontà legislativa che cancella la rilevanza della volontà degli interessati”. Oltre all’art. 2 sui diritti inviolabili dell’uomo e all’art. 13 sulla proibizione di ogni violenza su persone sottoposte a restrizione di libertà (come quelle in condizione di stato vegetativo permanente), il testo più esplicito è quello dell’art. 32, che vieta ogni trattamento sanitario obbligatorio “se non per disposizione di legge”. L’ipotesi di questo possibile intervento legislativo di deroga fu previsto all’Assemblea Costituente, per interpretazione unanime, per i casi posti da problemi di sanità pubblica (epidemie) o dalla necessità di prevedere vaccinazioni generalizzate dei bambini, rispetto alle quali ci si trovava, a suo tempo, di fronte a resistenze psicologiche di molte famiglie fondate sull’ignoranza. E comunque (secondo comma) qualsiasi trattamento “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questo rispetto esige che una persona in coma irreversibile, priva di qualsiasi coscienza e sensibilità, non debba essere trattata come una cosa. Anche le convenzioni internazionali sono esplicite in materia. Oltre alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art.3), in particolare la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, promossa dal Consiglio d’Europa e firmata ad Oviedo nel 1997 (ratificata nel 2001 dal nostro paese dalla legge n. 145 del 28.3.2001) afferma esplicitamente all’art. 9: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”. Altri documenti internazionali vanno nella stessa direzione. La “Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani” del 2005 promossa dall’Unesco conferma il diritto all’autodeterminazione del malato e la protezione di quello incapace ( artt. 5,6,7). In definitiva, ci chiediamo perché i vescovi non sappiano accettare, con serenità, valutandone i contenuti “umanistici” (e quindi anche cristiani) questi articoli della nostra Costituzione, distorcendone il significato, avendo paura – si direbbe – della libertà e della dignità che essi attribuiscono alla persona, ipotizzando, nel caso venga approvata una legge diversa da quella da essi auspicata, scenari di decadimento del senso della vita nella nostra società. Ma questi fantasmi percorrono davvero il mondo cattolico italiano? O sono soprattutto la conseguenza di una fede cristiana, soprattutto dei vertici ecclesiastici, che è debole nella speranza e nella visione generale del percorso dell’uomo dalla vita verso la morte?

Conclusioni
Molte altre sono le questioni che riguardano il testamento biologico (o DAT): per esempio, quelle relative alle modalità della manifestazione della volontà, al ruolo del fiduciario fino a quelle del ruolo del medico o dei medici coinvolti, dei famigliari, dei comitati etici previsti presso le strutture sanitarie. Ci siamo concentrati sui due punti sui quali lo scontro si è sviluppato fino ad ora in Parlamento e sui quali è stato ed è pesante l’intervento dei vertici della Cei (la natura dell’alimentazione e della idratazione forzata in caso di stato vegetativo permanente e l’efficacia delle DAT). Su entrambe le questioni abbiamo cercato di motivare perché una riflessione, all’interno della nostra Chiesa e da cristiani ‘adulti’, seguendo la linea del Magistero nei suoi documenti ufficiali, giunga a conclusioni ben diverse da quelle proposte dalle posizioni ufficiali della gerarchia ecclesiastica nel nostro Paese. Vogliamo chiedere ai nostri Pastori un ripensamento su tutta la questione. Vorremmo che essi facessero un passo indietro e che assumessero la linea del dialogo con la cultura ‘laica’ e della ricerca di un terreno comune di fronte all’incalzare delle questioni poste dal progresso tecnicoscientifico per arrivare infine a una legge di largo consenso. Siamo convinti che sarebbero ascoltati e che le loro preoccupazioni diventerebbero parte di un sentire comune, pur nel permanere di opinioni ancora diverse. Siamo convinti che, su una questione di così grande importanza, non ci debba essere il sospetto che l’obiettivo di ottenere questa legge sia perseguito mediante compiacenze o silenzi nei confronti di politiche odiose sotto altri profili (legge sulla sicurezza, silenzio sulla moralità pubblica, rottura delle regole della vita democratica, eccessiva remissività nei confronti dei recenti gravi scandali). Siamo convinti che esista una sproporzione in tutto il mondo cattolico, o almeno in quello italiano, tra questo accanito e assorbente impegno per la difesa della vita biologica e un inferiore impegno a favore della vita dei tanti che nel loro percorso quotidiano nel nostro paese e nel mondo sono in condizioni di grave sofferenza fisica o morale o in situazioni sociali difficili. Alla fine della nostra riflessione critica ci sentiamo in diritto di chiedere – e quasi di pretenderlo come atto dovuto – che nella nostra Chiesa su queste questioni si apra una discussione da subito, a tutto campo, sui media e nelle strutture di base, senza che nessuno sia etichettato a priori o come ortodosso, o come dissidente. Non esiste, infatti, un pensiero unico. In assenza di una svolta, l’assenza di dibattito e questa linea autoritariamente decisa potranno forse, nel breve periodo, soddisfare bisogni di identità o fragili convinzioni di principio, od ottenere risultati concreti, cioè una legge gradita. Ma, nel lungo periodo, siamo convinti che questa scelta sia perdente, sia dal punto di vista dell’annuncio dell’Evangelo, sia dal punto di vista pastorale, che lo scisma interno, già esistente nella nostra Chiesa, possa estendersi.

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