L’ITALIA CHE VA

Nonostante le apparenze, l’Italia è tornata terra d’emigrazione. Magari ad alto livello; ma pur sempre terra d’emigrazione col progressivo depauperamento di forza lavoro specialistica costretta a lasciare il Bel Paese. I dati rilevati dall’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) la dicono lunga sulla situazione che si è venuta a determinare nella penisola. In dieci anni (2000/2010) oltre trentamila tecnici ad alto livello se ne sono andati per cercare all’estero quelle occupazioni che, da noi, sembrano essere sparite. Si trattato, in ultima analisi, di laureati, ricercatori ed esperti in alta tecnologia. In altri termini, agli inizi di questo Nuovo Millennio si sta verificando un’emorragia di talenti che, a nostro avviso, avrebbero potuto essere validamente impiegati in Patria. Una più accurata analisi del problema evidenzia che la maggior parte dei nuovi Emigrati è costituita da uomini (75%), il resto da donne. Le mete preferite restano in UE. Ma si registrano anche casi d’emigrazione a più ampio raggio soprattutto negli Stati Uniti. Il fenomeno, a nostro avviso, sarebbe da analizzare con molta attenzione per non vanificare lo sforzo tecnologico che l’Italia si è impegnata ad affrontare entro il 2020. Intanto, andiamo a verificare dove si genera il nuovo flusso migratorio. Al primo posto, risultano i giovani lombardi. Al secondo posto, sempre per numero, si è piazzata la Sicilia, in terza posizione il Lazio. Ma, per la verità, non esistono regioni immuni da questa specie d’emorragia di cervelli verso mete più promettenti di quelle nazionali. I motivi di questo fenomeno, che non sono solo sociali, si possono focalizzare nelle difficoltà occupazionali che hanno colpito soprattutto le alte tecnologie. Da noi, pur con tutte le assicurazioni, il costo del lavoro è ancora troppo elevato e la concorrenza si è fatta spietata. Le tecnologie importate dall’estremo Oriente hanno prezzi inferiori almeno del 30% rispetto alle nostre. L’industria nazionale, di conseguenza, si è adeguata. S’importa tecnologia straniera e s’esportano uomini che sarebbero capaci di produrre questa tecnologia in casa. Quello che gioca a favore delle importazioni, sono i prezzi che, rispetto a quelli nazionali, sono più che competitivi. Ne consegue che investire in tecnologia italiana conviene sempre di meno e gli specialisti sono costretti, gioco forza, a trovare altrove una sistemazione lavorativa all’altezza. Se la tendenza non si dovesse invertire, il flusso migratorio dovrebbe aumentare nei prossimi anni con destinazione Paesi anche extracomunitari. La situazione è presto fotografata: in Italia siamo aperti alla manovalanza da tutto il mondo. Ma per i nostri tecnici non rimane che seguire la strada opposta. Gli Stati Uniti, soprattutto, hanno saputo apprezzare la preparazione e l’originalità di certe lavorazioni messe a punto da tecnici nazionali. Anche a livello informatico, dopo un Gap iniziale, ci siamo saputi adeguare ed ora siamo competitivi; anche ben oltre le tecnologie del Sol Levante. A questo punto, non è solo questione di lungimiranza. Mancano gli impegni politici e programmatici per garantire un’inversione di tendenza. Già nel secolo scorso c’eravamo resi conto di questa carenza; forse, l’abbiamo sottovalutata. Per uscire dalla crisi economica, che da noi è stata più dura che altrove, si dovrebbe investire maggiormente nella ricerca ed offrire ai giovani maggiori opportunità occupazionali in Patria. Perdere materia prima, come sta accadendo, potrebbe essere il primo segnale di una regressione nei confronti della quale nessuna formazione politica potrebbe porre validamente un argine. E’ una questione di vitale importanza per l’Italia e per gli italiani. Quindi, è meglio prevenire che curare.

Giorgio Brignola

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