Nelle ultime tre legislature (con la parziale eccezione di quella in corso) si è spesso discusso sull'approvazione di una legge generale di libertà religiosa, idonea a riordinare la materia ecclesiastica in Italia, così frammentata tra i trattamenti favoristici raggiunti nei decenni dalla Chiesa di Roma, la realtà di poche confessioni munite di intese -perlopiù omologhe- con lo Stato, la dinamicità di vari gruppi minoritari ancora sottoposti alle norme della legislazione fascista. La questione non si è imposta in modo apprezzabile nell'agenda parlamentare. Non lo ho fatto nemmeno nell'opinione pubblica, ove anzi il fallimento è stato più incisivo e visibile. Nè l'abbandono di quel progetto ha favorito l'esecuzione del nutrito gruppo di intese concluso nel 2007. Forse varrebbe la pena di indagare le ragioni di un simile disinteresse nei confronti di una stagione di legislatio libertatis, più che mai necessaria nella comprensione dei fenomeni migratori, nella ricomposizione del dibattito sull'obiezione di coscienza, nel recupero di un'assiologia costituzionale minima sui temi cd “eticamente sensibili”.
Tra queste non dovrebbe tacersi, ovviamente, la scarsa attenzione verso il diritto di libertà religiosa degli italiani all'Estero: questo tema non risultava lontanamente rappresentato nelle varie proposte susseguitesi negli anni e nè editorialisti nè studiosi hanno avuto la forza di rilanciarlo criticamente attraverso propri scritti. Eppure, una legge generale di libertà religiosa, sul modello spagnolo o su quello francese, coerente con le clausole del costituzionalismo americano oppure orientata sul ruolo promozionale che parrebbe emergere dalla attuale normativa italiana in tema di welfare mix, o si rapporta alle forme storico-contingenti di immigrazione ed emigrazione o semplicemente non è, non funziona.
La storia dell'antropologia culturale mostra, ad esempio, come gli immigrati italiani in America abbiano trovato intorno alle celebrazioni rituali, spesso di matrice religiosa, preziosi momenti di collante ed amalgama. Lo stesso non si osserva nelle nostre periferie metropolitane, per cittadini cinesi, rumeni, di fede islamica o ispanici?
L'Italia all'Estero riesce a farsi conoscere per la sua dignità, per la sua impresa e per la sua cultura. Gli italiani residenti all'Estero esprimono, sotto il profilo strettamente descrittivo, un pluralismo religioso persino superiore a quello degli italiani residenti… in Italia: dal momento che si ritrovano (anche) nelle Chiese protestanti, nell'ortodossia, nei nuovi culti e, ancora, nel fenomeno di recente evidenziazione sociale, dei convertiti occidentali all'Islamismo. Per chi mantiene un legame di tipo tradizionale con la propria terra, più affettivo che patrimoniale, tuttavia, anche la scelta di seguire i precetti e le pratiche del culto abbracciato nella terra d'origine si carica di significati precisi, ben oltre il crinale (non così chiaro ed inclusivo) del divide tra liberalismo e comunitarismo. Ci siamo interrogati su quale delle due opzioni fosse più a destra e quale più a sinistra… abbiamo scoperto che il vero deficiti era chi, da quel dibattito, restava estromesso.
Legge generale di libertà religiosa chiamata allora -quando vi sarà un Legislatore in grado di assumersene la responsabilità- a dettare anche norme sul diritto di libertà religiosa degli italiani all'Estero. Non dietro il rigurgito di sovranità nazionale di scavalcare i diritti, previsti o non previsti, garantiti o non garantiti, nello Stato straniero: semmai incoraggiando il coordinamento tra enti, pur sottoposti a differenti discipline statuali, favorendo lo scambio interculturale, prevedendo disposizioni di ampio respiro su temi in ogni caso concreti come il finanziamento, la solidarietà sociale, nonché la espressa previsione scritta della irrinunciabilità del contraddittorio per il provvedimento disciplinare interno che si palesasse contrario alla dignità della persona.
Siamo sicuri che tutti questi argomenti non meritino di tornare nel dibattito? Siamo sicuri che il dialogo sociale possa prescindere da essi? Che l'integrazione non riesca a trovare in loro una qualche forma di sostegno ed incentivo? Che quell'altra nazione che non vive nel territorio proprio della nazione non ne avrebbe alcun giovamento?
Domenico Bilotti