La Repubblica del segreto

Nato come strumento di tutela della sicurezza nazionale, il segreto di stato in troppi casi sembra un comodo escamotage per nascondere verità scottanti. A trent’anni dalle stragi di Ustica e Bologna il dibattito è aperto

«Se sulla strage dell’Italicus il governo di allora non avesse indebitamente opposto il segreto di Stato, le indagini sarebbero andate in modo del tutto diverso». A 36 anni di distanza da quel 4 agosto del 1974, quando 12 persone morirono nell’esplosione dell’espresso Roma-Monaco, a parlare così è Libero Mancuso, pm del processo sui depistaggi relativi proprio all’Italicus e alla strage alla stazione di Bologna. Di quest’ultima, a breve, si celebrerà il trentesimo anniversario e i familiari delle vittime torneranno a chiedere a gran voce che vengano accertate le responsabilità politiche di chi si è mosso dietro l’organizzazione della mattanza del 2 agosto 1980.
La richiesta di assicurare alla giustizia i responsabili politici e militari è terreno comune per i familiari delle vittime di tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia durante gli anni di piombo: a pagare sono stati, quasi sempre, solo gli esecutori materiali. La motivazione, secondo Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, è da imputare al segreto di stato, considerato «l’ostacolo per arrivare ai mandanti e agli ispiratori politici delle stragi».
In realtà, in mancanza di un quadro chiaro e definito della questione, questo punto è stato, negli anni, causa di disaccordo e di opinioni contrastanti. Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione familiari vittime di Ustica, rispondeva così qualche tempo fa a Bolognesi: «In base alla legge in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordine costituzionale». E pertanto le dichiarazioni del presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna sarebbero state da ritenersi prive di fondamento.
Insomma, il discorso è tutt’altro che semplice: il segreto di Stato è stato usato per nascondere verità scomode, soprattutto durante la strategia della tensione, come sostengono Mancuso e Bolognesi? Ne è stato fatto un uso indebito? Cosa c’entra con il depistaggio?

Il segreto di Stato: la storia. Per trovare una risposta alle domande di cui sopra, è necessario fare un po’ d’ordine, cominciando con il capire cosa è, per la legge italiana, il segreto di Stato. Operazione non semplice, dato che per lungo tempo è mancata una dettagliata regolamentazione del segreto, affidata a un regio-decreto del 1941, firmato da Mussolini e Vittorio Emanuele III. Successivamente, proprio per definirne meglio l’ambito di operatività e i limiti, venne emanata la legge 801 del 1977, che definiva il segreto di Stato come un vincolo posto dal Presidente del Consiglio su atti, documenti, notizie, attività, cose e luoghi la cui divulgazione potesse danneggiare gravemente gli interessi fondamentali dello Stato. Essa prevedeva un importante limite all’opposizione del segreto, vietata in merito ai “fatti eversivi dell’ordine costituzionale”, come affermato dalla Bonfietti. Tale impianto venne poi confermato dalla riforma dei servizi con la legge 124 del 2007 che abrogava quella precedente del 1977, introducendo un limite massimo di secretazione di 30 anni.
Il segreto di Stato ha assunto, poi, una particolare rilevanza nelle indagini della magistratura (soprattutto in quelle più delicate), dato che, a differenza delle cosiddette “classifiche di segretezza”, può essere fatto valere anche nei confronti della stessa autorità giudiziaria.
Nel caso in cui, ad esempio, un pm stia indagando e si trovi a richiedere determinate informazioni a un pubblico ufficiale, a un incaricato di pubblico servizio o ad uno 007, questi possono rifiutarsi di rispondere, opponendo il segreto di Stato. In questa ipotesi, il giudice può chiedere al Presidente del Consiglio di confermare o meno l’opposizione del segreto. Il Presidente del Consiglio risponde e la storia finisce lì.

Al punto di partenza. Ma ecco il punto cruciale: cosa succede se si è avuto un uso illegittimo del segreto? La riforma del 2007, in sintonia con quanto sostenuto da molti giuristi, prevede la possibilità che il magistrato inquirente sollevi un conflitto di attribuzione con il Presidente del Consiglio davanti alla Corte Costituzionale. Ma solo per “acquisizioni probatorie successive all’entrata in vigore della legge”. Ciò significa, ad esempio, che restano esclusi tutti i processi ancora in corso relativi allo stragismo politico e mafioso, a meno che non vengano fuori nuovi elementi, diversi da quelli già secretati nel corso degli anni.
A complicare ulteriormente la situazione, gettando ancor di più nello sconforto chi da anni si batte per portare a galla le verità nascoste della Repubblica, è intervenuta la stessa Corte Costituzionale, escludendo il (proprio) sindacato giurisdizionale sulla individuazione di notizie che possano costituire segreto di Stato, essendo definita, quest’ultima, come una prerogativa del potere esecutivo. Risultato: si è tornati – di fatto – alla situazione precedente. Viene riconosciuta al Presidente del Consiglio una mera responsabilità politica nei confronti del Parlamento (e del Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, in testa): la tutela ultima sulla corretta opposizione del segreto di Stato è affidata alla volontà politica di una maggioranza parlamentare di sanzionare il proprio premier.

Il segreto “sfavorevole”. Raccontare lo sdegno di chi ha visto e vissuto il segreto come una porta sbattuta in faccia alle proprie indagini è quasi superfluo. Secondo Libero Mancuso: «In questo modo vi è, nei fatti, una totale mancanza di responsabilità per il Presidente del Consiglio. Ciò è particolarmente grave – aggiunge – quando l’opposizione del segreto diventa un semplice atto di intralcio all’attività giudiziaria. Oggi, in pratica, viene fatto valere il segreto politico-militare su tutto lo spionaggio, con una funzione meramente autoprotettiva. Basti pensare a come è stato ’risparmiato’ dal processo un uomo al vertice del Sismi».
Già qualche mese fa, Felice Casson (Pd) aveva dichiarato a «la Repubblica» che «il messaggio che passa è che i servizi possono fare quello che vogliono, tanto poi possono appellarsi al segreto e tutto finisce lì». Il caso specifico a cui Casson si riferiva era quello della copertura, tramite segreto, delle operazioni Sismi-Telecom. Uno dei tanti casi “incriminati” per una interpretazione quantomeno “estensiva” dell’opposizione del segreto. Insieme alla vicenda degli archivi segreti di via Nazionale, quella di Abu Omar o i lavori di ristrutturazione fatti da Silvio Berlusconi a Villa Certosa.

La petizione del comitato Secci. Libero Mancuso punta il dito accusatore sulle «collusioni tra terrorismo, vertici militari e P2». E racconta di quando le indagini di un giudice istruttore di Firenze sulla loggia massonica di Licio Gelli vennero bloccate perché «chiedeva di accedere a determinate informazioni sul proprietario di una clinica che reclutava “aspiranti piduisti” ed era un punto di riferimento per i terroristi».
Ma la legge recita: «In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale». Il punto è che il governo può sempre porre il segreto «sostenendo che l’informazione richiesta non ha nulla a che fare con le indagini del magistrato», spiega Mancuso. E lo sa bene, lui, dato che è proprio quello che si è sentito rispondere mentre indagava sulla strage dell’Italicus. Una delle inchieste più colpite dalle secretazioni governative, intervenute di fronte alla richiesta di informazioni su un terrorista neofascista per comprendere se fosse informatore dei Servizi o meno o, ancora, quando il velo di Palazzo Chigi calò sulle operazioni di controspionaggio di Claudia Aiello, interprete italo-greca al servizio del Sid.
Un procedimento analogo è stato portato avanti, in opposizione alla Dda di Caltanissetta, per coprire i nomi e le foto di alcuni agenti dei servizi le cui identità potevano (e possono) rivelarsi determinanti ai fini delle indagini sulle stragi di mafia del 1992/93.
«Tutto ciò avvalora la nostra tesi secondo cui, in barba alla legge, il segreto di Stato nei reati di strage è tuttora operativo», sostiene l’avvocato Giosuè Calabria, promotore del Comitato “Torquato Secci” per l’abolizione del segreto di Stato nei delitti di strage e terrorismo. «Magari – aggiunge – opera in modo più subdolo, indiretto». Insomma, è la stessa tesi sostenuta da Bolognesi e da Mancuso. E da quegli oltre diecimila cittadini che hanno firmato l’appello dell’avvocato Calabria perché si proceda ad una effettiva abolizione del segreto nei reati di eversione.

La forma e la sostanza del segreto. Ad ostacolare detta abolizione del segreto di Stato vi sono diversi aspetti. Oltre infatti alla evanescenza dei controlli che lascia mano libera al premier, con la possibilità di sostenere l’irrilevanza della notizia richiesta ai fini processuali, ci si mette anche il codice di procedura penale a complicare ulteriormente le cose, prevedendo che in nessun caso possano essere svelati i nomi degli informatori. E, quindi, rendendo le loro dichiarazioni inutilizzabili ai fini processuali.
«Non sono solo cavilli giuridici», riprende l’avvocato Calabria. Tutt’altro. «Anzi, il problema è proprio questo. Che in Italia il diritto è diventato una forma che esprime una forma. E così il divieto di opporre il segreto di Stato viene aggirato continuamente, in modo bipartisan».
E così, mentre la forma è salva e nessun segreto può servire – in teoria – a coprire tentativi di eversione, la sostanza va a rotoli e i governi hanno piena libertà d’azione.

La questione depistaggio. Ma fino a quando non vi sarà un organo di controllo efficace sulla legittima opposizione del segreto di Stato non c’è proprio nulla da fare?
In realtà margini di miglioramento ci sono, dicono dagli ambienti antioscurantisti, a cominciare dalla questione del depistaggio.
Sempre Giosuè Calabria spiega, infatti, come sia molto grave «la mancata previsione di uno specifico reato di questo tipo. Ciò significa che, quando si assumono condotte finalizzate a distorcere la verità, è molto probabile uscirne puliti». O, al massimo, si rischia un processo per calunnia o favoreggiamento, con tempi di prescrizione ragionevolmente brevi.
Lo stesso Libero Mancuso sottolinea come il reato di depistaggio potrebbe avere una «forte efficacia dissuasiva» e sarebbe uno dei cosiddetti «reati propri, riferito direttamente ed esclusivamente a una categoria: quella dei vertici politico-militari del Paese». E almeno su questo sembra esserci grande accordo, anche fra le associazioni dei familiari delle vittime delle stragi.
Ma, lungi dall’essere conclusa, la battaglia sul segreto di Stato continua.
In molti ritengono ancora oggi che l’introduzione di meccanismi di controllo nei confronti del Presidente del Consiglio, custode del segreto di Stato, sia l’unica strada praticabile per porre un limite sostanziale e non solo formale: con la legge del 2007 si erano illusi, gli sviluppi successivi li hanno riportati alla realtà.
Intanto il governo di Silvio Berlusconi, dopo aver provato ad inserirla in mezzo al ddl intercettazioni, si prepara a discutere una nuova riforma dei servizi. Con nuove garanzie di non-intercettabilità per le conversazioni degli 007.

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