I LIBERAL AL TEMPO DEL BIPOLARISMO. BENEDETTO DELLA VEDOVA

Il sistema proporzionale ha facilitato, per oltre quattro decenni, assembramenti o percorsi comuni tra forze che non si riconoscevano nel bipartitismo imperfetto primo-repubblicano PCI-DC. Le speranze “terzaforziste” pure si connotavano per quell’eccesso di inclusivismo elettoralistico che contestavano ai due partiti egemoni: convergendo spesso dalla sinistra antistalinista sino alla destra antiautoritaria ed antimonarchica, ma pur sempre conservatrice. La presunta “terza Repubblica” ha ulteriormente indotto, come già faceva la seconda filomaggioritaria, i gruppi di “eretici” all’interno degli aggregati più consistenti. Una cornice di questo tipo può servire per leggere la vicenda radicale del 2005/2006: una parte significativa del mondo radicale accettava la sfida di una Rosa liberal-socialista, schierata nel centrosinistra, con la sua irrinunciabile funzione di pungolo sull’antistatalismo e sui diritti civili e politici. Ma è anche vero che quote non indifferenti di quell’emisfero mal si vedevano col dirigismo partitocratico che connotava i gruppi più significativi dell’Ulivo e dell’Unione: ragion per cui la Rosa socialista appariva in nuce contraddizione e negazione di un percorso liberale e libertario. Il più lungimirante movimento a sottrarsi a quell’abbraccio fu costituito dai Riformatori Liberali: personalità come Taradash (che proveniva dall’internazionalismo antiproibizionista) e Della Vedova (liberista, edotto dei problemi economici del Nord, già parlamentare europeo) animavano le fila dello scontento. Benedetto Della Vedova ha creduto convintamente nella coalizione di centrodestra e nel progetto di partito unitario berlusconiano: lo ha fatto, peraltro, a modo proprio, cioè ritenendo il PDL non l’ennesima anomalia italiana, ma la frase inserita in un discorso coerente di liberalismo popolare europeo. Dove la radice cattolica, senza nascondersi, non oscurasse il passo di quella libertaria, favorevole alle autonomie locali, di genere e razziali. Benedetto Della Vedova ha dimostrato di avere in mente il Partito Popolare Spagnolo, la CDU tedesca, i conservatori inglesi. Partiti anche visibilmente ideologici, ma predisposti a una modernizzazione dei loro contenuti programmatici. Sul fronte delle libertà economiche (di solito dominio di forze liberiste minoritarie), sul fronte dell’integrazione sociale (usualmente terreno di conquista di istanze solo vagamente terzomondiste), sul fronte dell’inclusione di genere (spesso dimenticata da schieramenti di ogni sensibilità politica), sul versante, altrettanto scomodo, della battaglia liberale antiproibizionista e, soprattutto, antimoralista.

Certo, questo percorso ha avuto i suoi momenti di contraddizione: come il sostegno a Giuliani, uomo, si, rappresentativo, di una Destra repubblicana statunitense più emancipata che in passato, ma pur sempre pioniere e teorico di una tolleranza zero più paternalista ed autoritaria -nel senso di “vox media” attribuibile al termine- che libertaria e positiva.

Cionostante, Della Vedova ha condotto, insieme all’area politica che rappresenta (e di cui è figlio di ultima generazione), battaglie importanti, richieste di approfondimento comune su temi caldi dell’agenda politico-legislativa: testamento biologico, riconoscimento dei figli incestuosi, battaglia alla legislazione repressiva sulle droghe leggere, federalismo. Tutti marchi di una “giustizia come equità” ben poco assimilabili alle categorie populiste e invece oggetto di riflessioni di massa nel moderno elettorato italiano: meno proibizione e più prevenzione, meno dottrina e più pratica, meno propaganda e più defiscalizzazione, meno schedature e più provvedimenti pragmatici, libertari e tolleranti. Un percorso non così raro e neanche così diffuso nell’attuale scenario del centrodestra.

Questi valori, repubblicani e temperati, dovrebbero radicarsi sempre di più nel mercato delle idee non solo di una destra finalmente coerente, in ogni sua parte, al discorso politico-costituzionale, ma di un intero Paese che scelga finalmente la riflessione e non l’umore sballato del momento, la proposta concreta e non lo spot altisonante, buono per mietere i frutti di lunghe campagne elettorali, ma incongruo a definire strategie durevoli di policy-making.

Un ultimo esempio significativo: la polemica sugli artt. 41 e 42 della Costituzione. Della Vedova, per sua propria estrazione politica, ma anche per percorso di studi e di ruoli istituzionali (è colpito dalle ineleggibilità locali che furono inflitte a molti dirigenti radicali per azioni dimostrative sulla droga), fa parte di quel novero di intellettualità italiana distante anni luce dal compromesso cristiano-marxista dei diritti sociali previsti dalla Costituzione. Eppure non si è unito al chiacchiericcio (presuntamente) meritocratico dell’indiscriminato esercizio della libertà di impresa. Ha percorso la via legale e della battaglia legale di un’impresa meno burocratica e più dinamica, pur forse non debitamente osservando i limiti garantistici di questa idea di “produzione di beni e di servizi”: ragionare di grandi massime, senza darvi sostrato sostanziale, minimale, comprensibile ed universalizzabile, sulla scorta del più elegante conservatorismo occidentale ed europeo, è un peccato mortale per ogni liberale, laico e repubblicano. Non c’è (astratta) bandiera che tenga.

Domenico Bilotti

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