La lettera del giorno. Il caso di Stefano Cucchi e le parole di Giovanardi
Il sottosegretario Carlo Giovanardi ha affermato: «Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo». Nessuna meraviglia: in passato ha già dato più volte un saggio della sua intelligenza, profonda cultura e cristiana sensibilità. Nel 2006, alla trasmissione «Ottoemezzo» — dedicata al tema della eutanasia infantile e al caso di un neonato affetto da malattia inguaribile e in preda a dolori insopportabili — lui uscì con questa frase: «Finché c’è vita c’è speranza»; e in una trasmissione di Bruno Vespa ha affermato che un medico aveva il dovere di tenere in vita Piergiorgio Welby, così come ogni medico ha il dovere di salvare un suicida che si getta dalla finestra e resta vivo.
Miriam Della Croce
Risposta di Carlo Romano
Il caso del giovane Cucchi ha suscitato gravi sospetti sul comportamento delle forze di polizia e dei medici. È giusto che l’opinione pubblica ne sia preoccupata e che la magistratura indaghi. Ed è giusto che i giornali abbiano dato spazio alle voci di quanti sono indignati dalla possibilità di atteggiamenti repressivi o negligenti. Ma questo coro di proteste e accuse ha avuto l’effetto di oscurare un aspetto della vicenda non meno importante. Commossi dalla morte di Stefano Cucchi, abbiamo dimenticato che ogni persona è responsabile della propria vita ed è inevitabilmente destinata a raccogliere i frutti delle proprie scelte. Non ne sono sorpreso. La reazione al caso Cucchi è quella che si è progressivamente diffusa ormai da parecchi anni sino a diventare, col passare del tempo, «corretta». La morte della vittima ne cancella le responsabilità; e tanto meglio se la colpa può essere imputata allo Stato e alle sue istituzioni. Il caso del ragazzo Giuliani ucciso a Genova durante la manifestazione del G8 nell’estate del 2001 è probabilmente l’esempio più clamoroso di questa nuova regola sociale.
A me sembra che tale regola — la vittima è sempre innocente — renda un pessimo servizio ai nostri figli e nipoti. Se continueremo su questa strada li convinceremo che non sono responsabili di se stessi, che non hanno il dovere morale di pesare attentamente le loro azioni. Educheremo generazioni di ragazzi che oscillano fra l’autocompatimento e la frustrazione. Non avrei usato le parole di Carlo Giovanardi, ma credo che il suo intervento «scorretto» abbia avuto il merito di ricordare ciò che troppi hanno dimenticato.
Replica di Miriam
Carlo Giovanardi per la gravità di ciò che ha affermato, avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Sergio Romano per ciò che afferma in questa risposta si differenzia dalle parole di Giovanardi nella forma, ma non nella sostanza. E quindi dovrebbe pensare a lasciare, perlomeno, la cura delle rubrica lettere del Corriere. Innanzi tutto vorrei fargli osservare che se Stefano Cucchi fosse stato un giovane elegante in giacca e cravatta, magari a bordo di una macchina lussuosa, le “mele marce” delle forze di polizia lo avrebbero trattato con rispetto. Di norma le “mele marce” danno addosso ai poveri cristi. L'affermazione poi che “ogni persona è responsabile della propria vita ed è inevitabilmente destinata a raccogliere i frutti delle proprie scelte”, è sconcertante per la banalità, l'inesattezza e la crudeltà. Si pensi alla responsabilità di colui che è costretto a scegliere tra morire di fame, chiedere l'elemosina, oppure rubare. E la persona che sceglie di stare dalla parte della verità, e per questo magari viene torturata o uccisa, è forse responsabile dei “frutti” delle proprie scelte? Forse Sergio Romano si riferisce soltanto alle scelte “cattive”, come assumere droga? E in base a quale criterio possiamo affermare che il “frutto” di tale scelta debba necessariamente essere quello di morire uccisi a botte dalle “mele marce” delle forze di polizia? Ma che dice Sergio Romano?