All’Italia non serve una riforma “al buio”
Il federalismo non fornisce strumenti utili a combattere il declino
La reazione parlamentare e giornalistica alla sincera quanto stupefacente dichiarazione del ministro Tremonti sull’impossibilità di quantificare il costo del federalismo futuro è stata prevalentemente incentrata sul rischio che c’è nel fare una riforma “al buio”. Giusto, ma parziale. Come ha ben spiegato Luca Ricolfi sulla Stampa di ieri, è inaccettabile che ci si debba basare solo sull’impegno assunto dal Governo affinché i decreti attuativi non debordino oltre i confini già tracciati nella finanza pubblica dalla crisi economica in atto. Così come è incredibile, dopo anni di applicazione e due modifiche costituzionali, che non ci sia ancora uno straccio di consuntivo di quanto sia costato il “federalismo realizzato” e di quale risultato dia la somma algebrica dei vantaggi e degli svantaggi fin qui procurati.
Ma, a mio avviso, è su un altro piano che andrebbe indirizzata la reazione oppositiva. Si dice: il federalismo fiscale non aggraverà la crisi. Ammesso e non concesso che sia vero, ci mancherebbe altro. Ma a me interessa che la risolva, la recessione, non semplicemente che non la complichi. E sì, perchè il problema dell’Italia è da 15 anni la bassa crescita economica (1 punto all’anno di meno della media Ue, quasi due punti e mezzo rispetto agli Usa), e in questo frangente evitare che la recessione diventi devastante. Dunque, qualunque riforma istituzionale, deve essere funzionale all’obiettivo primario del paese, che è appunto tornare allo sviluppo colmando il gap di crescita e di competitività fin qui accumulato. Se serve a questo fine si fa, se non serve non si fa. Dunque, il grave della proposta Calderoli è che non fornisce strumenti utili a combattere il declino.
Per la semplice ragione che non può: il federalismo, infatti, è una forma di decentramento dei poteri – peraltro finora realizzata in maniera aggiuntiva e non sostitutiva a quelli nazionali – che contrasta con gli standard imposti da quella globalizzazione che è la prima causa del nostro declino (non per sua colpa, ma perchè noi non ne abbiamo capito le conseguenze). Si tratta delle “grandi dimensioni” – degli Stati, dei mercati, delle imprese – e della “velocità del cambiamento”, a sua volta figlia della “velocità delle decisioni”. Noi, invece, in questi anni siamo andati nella direzione di marcia opposta: piccole dimensioni, tanto del sistema produttivo quanto degli assetti istituzionali, e lentezza, specie nei processi decisionali (fortemente influenzati dal localismo esasperato). D’altra parte il declino ha cause precise, mica è il portato della sfortuna.
Dunque, invece di prendere atto che i meccanismi di decentramento attuati in questi anni hanno fatto lievitare i costi, hanno moltiplicato il contenzioso tra centro e periferia e hanno prodotto un’intollerabile cultura del veto, assegnando anche all’ultimo dei sindaci poteri d’interdizione inauditi, e di conseguenza imboccare la strada opposta, ci siamo infilati in questo vicolo cieco del federalismo fiscale, scelta peraltro presentata dai suoi sostenitori come modo per portare a compimento quanto finora realizzato.
Il che dovrebbe di per sè già essere un campanello sufficientemente sonoro per svegliarsi e fermarsi. Se poi a questo si aggiunge che da quella stessa sponda viene il no a processi di semplificazione istituzionale come l’abolizione delle province (anche se oggetto di promessa elettorale), allora non ci dovrebbero più essere dubbi sul no al federalismo fiscale. Ma quand’anche tutto ciò non fosse stato sufficiente, beh a tagliare la testa al toro dovrebbe essere la stupefacente ammissione di Tremonti che quella “roba lì” non serve a guarire, al massimo non aggrava. (Terza Repubblica)