Il pianeta dei resoconti filmografici, delle sintesi romanzate, a detta di tutti è una realtà drammatica, indescrivibile per disumanità e somma di ingiustizie della giustizia.
Il carcere è diventato un lazzaretto disidratato, dove è sempre più difficile impegnare la morale, l’etica, l’onestà dei valori auspicati, mentre è sempre più facile sparare sulla croce rossa di un indulto concesso senza alcuna preparazione né formazione, tanto meno coperture finanziarie adeguate, peggio, rese inadeguate dall’immobilismo burocratico.
Un contenitore di numeri inqualificabili, di uomini invisibili a cui non è consentito per “legge non scritta”, di essere tali nella propria dignità.
E’ di questi giorni l’amara constatazione da parte di autorevoli operatori penitenziari : siamo costretti a pensare unicamente al posto letto “chiuso” in una cella, cioè a sistemare su un materasso maleodorante, posizionato per terra, o su un letto a castello alto tre metri, più persone.
Un posto letto chiuso in una cella, dove tutto può essere condiviso, persino il nulla, il vuoto, la follia di una inaccettabilità, in una discarica disposta a macerare diritti e doveri acquisiti, ma cancellati dalla memoria giuridica e sociale di un intero paese, sempre più influenzato dall’ideologia fai da te.
In questa punteggiatura dell’esclusione appare sempre più ostico ribadire l’urgenza di formare persone e idee per umanizzare il penitenziario, per umanizzare la pena, per umanizzare una giustizia detenuta anch’essa, e quindi mal interpretata di conseguenza.
Conduttori di aree pedagogiche e della sicurezza, “ obbligati a pensare soltanto al posto letto”, di fronte a questo sfinimento di intenzioni e volontà c’è il rischio di perdere contatto con la realtà che circonda e umilia le persone che sopravvivono nei perimetri della vergogna, i quali rimangono illusoriamente simboli della corretta punizione, della auspicabile rieducazione, della speranza a recuperare alla collettività uomini migliori.
Eppure dentro quei posti letto chiusi in una cella, non c’è più traccia di grida e sussulti di indignazione per i troppi ragazzi che decidono di togliersi la vita, di risocializzarsi in un’altra “occasione”, non si odono esternazioni aspre né si contraggono scomposti i rimorsi per questo silenzio colpevole.
Anzi si parla di laboratori teatrali, ergoterapici, formativi, di impegno a tutto tondo per creare benefiche intrusioni catartiche, terapeutiche, ma forse con più onestà intellettuale bisognerebbe parlare di intrattenimento veloce, in molti casi di perditempo studiato a tavolino.
Carcere duro, carcere flessibile, carcere che ancora non c’è, se non quello del contenitore dove ognuno reclama qualcosa ma nessuno espropria l’utopia che contamina e corrode il fare competente di tanti operatori.
Forse non è importante spendere parole che richiamano alla responsabilità, forse è sufficiente comprendere che “il carico di castigo della pena si stempera nel momento in cui si riconosce il primario interesse della collettività a rispettare la dignità della persona reclusa, assicurandole condizioni di vita improntate a criteri di umanità”.
E checchè se ne dica, ciò non può esser interpretato come una mera concessione.