La rivista “Analisi Difesa” intervista Barbara Contini, ex governatore di Nassiriya

Molti anni di missioni all’estero, spesso nelle più importanti aree di crisi internazionali, costituiscono il più importante biglietto da visita di Barbara Contini.

Dopo lunghe permanenze in Asia e nei Balcani, nel 2003/ 2004 è stata in Iraq ricoprendo anche l’importante incarico di “governatore” della provincia irachena del Dhiqar (dove erano schierate le truppe italiane) per conto dalla Coalition Provisional Authority. Successivamente è stata Rappresentante del governo italiano nel Darfur sudanese durante la fase più acuta del conflitto etnico e della crisi umanitaria. Esperienze nelle quali ha lavorato a stretto contatto con i militari italiani e alleati. Barbara Contini è attualmente responsabile per gli italiani nel mondo del Popolo della Libertà.

Dr.ssa Contini, nel suo piano operativo per gli italiani nel mondo, risulta una sezione dedicata ai militari all’estero. Per quale motivo?
Nel corso delle mie esperienze all’estero, ho avuto modo di lavorare a stretto contatto con i nostri militari e di apprezzarne le qualità umane e professionali. La stima e la considerazione che nutro nei loro confronti non è mai venuta meno. Per questo, ho voluto riservare una particolare attenzione alla realtà delle nostre forze armate.

Lei ha operato negli anni decorsi a fianco delle nostre missioni militari, in Bosnia, in Iraq. Le sue valutazioni sulle operazioni condotte.
Ho riscontrato una grande professionalità e una spiccata sensibilità umana, che consentono di penetrare le barriere dell’ostilità, soprattutto nelle circostanze in cui le popolazioni locali, spesso a causa di informazioni incomplete o manipolate, percepiscono la presenza militare in un’ottica negativa e non per ciò che esse realmente rappresentano, ossia un prezioso strumento di aiuto e una irrinunciabile garanzia per la loro sicurezza. A questo riguardo, è nostro dovere valorizzare la riconosciuta capacità di dialogo del soldato italiano, aperto più di altri a rispettare le culture estranee alla propria e per questo capace di muoversi con competenza in contesti critici.

Le nostre missioni militari, in particolare quella in corso in Afghanistan, sono spesso avvolte da ricorrenti polemiche politiche, soprattutto quando si verificano episodi drammatici che coinvolgono direttamente i soldati italiani. Qual è il suo giudizio in merito?
E’ uno spettacolo desolante assistere al consumarsi di sterili scontri ideologici quando accadono tragedie che investono i nostri militari in missione all’estero. Credo che dietro simili polemiche si nasconda un problema più profondo che attiene al modo in cui la politica si rapporta al tema della guerra e della pace, nonché al ruolo delle nostre forze armate nei contesti di crisi in cui sono chiamate ad operare. Mi riferisco in particolare ad una certa retorica della pace, che non solo tende a strumentalizzare un valore così importante, ma a volte si è tradotta nella reticenza della classe politica a dotare i nostri contingenti dei mezzi fondamentali per compiere il proprio dovere. Far finta che i rischi alla sicurezza internazionale, favoriti dall’instabilità di aree nel mondo, non esistano o ritenere che l’impronta umanitaria politicamente conveniente attribuita alle nostre missioni, serva a rimuovere la realtà di conflitti, ancora laceranti, dal dibattito pubblico e nella definizione degli interessi nazionali, non è più tollerabile. Una seria lotta al terrorismo internazionale non lo consente.

Con quale ottica la politica deve, a suo avviso, affrontare la questione delle missioni militari estere?
E’ urgente impostare una politica diversa, che utilizzi un linguaggio nuovo, al di là degli slogan e della retorica. Innanzitutto, i nostri militari dislocati nei vari teatri operativi devono sentire di avere un Paese alle spalle, e non solo le loro famiglie. Affinché ciò si realizzi e per evitare strumentalizzazioni, l’opinione pubblica deve essere messa in condizione di conoscere ciò che le nostre truppe fanno laggiù e perché lo fanno, compatibilmente con la necessità di preservare la riservatezza tesa a garantire la sicurezza dei nostri contingenti. I nostri soldati non devono sentirsi isolati dalla loro madrepatria. Inoltre, occorre evitare che essi si trovino costretti in situazioni di oggettiva difficoltà operativa e di comunicazione nei rapporti con altri Comandi presenti sul posto, difficoltà spesso provocate da esigenze contingenti della politica che vanno però ad inficiare l’operato delle nostre truppe in missione all’estero.

Ritiene che le operazioni militari all’estero siano necessarie anche nei prossimi anni ?
E’ in corso una campagna antiterroristica su scala globale, alla quale l’Italia ha aderito e contribuisce attivamente con le proprie forze armate. Il nostro sforzo si concentra adesso soprattutto in Afghanistan, dove la guerriglia neo-talebana minaccia il processo di pacificazione e il consolidamento delle istituzioni democratiche, ma anche in Libano, dove le attività dell’Hezbollah costituiscono un costante fattore di instabilità, senza dimenticare ovviamente il nostro impegno sui fronti balcanici e, pur se in misura ridotta, in Iraq. Il concorso dell’Italia alla lotta al terrorismo, nel quadro delle alleanze internazionali, non deve essere messo in discussione, anche perché è evidente che, in assenza di un sistema di sicurezza accettabile, sono limitate le prospettive di uno sviluppo economico e politico dei Paesi in cui siamo presenti con le nostre forze. Inoltre, alla luce dell’esperienza di questi anni, possiamo affermare che i nostri militari sono i migliori ambasciatori dell’immagine e credibilità dell’Italia nel mondo.

Come è cambiato il nostro sistema Difesa?
Ricordo che l’operazione in Somalia è stata l’ultima a vedere l’impiego di soldati di leva. Le riforme introdotte negli ultimi anni hanno condotto ad una professionalizzazione delle nostre forze armate, che, per le esigenze degli interventi all’estero all’interno di dispositivi multinazionali (nel contesto di coalizioni ad hoc e nell’ambito di missioni Onu, Nato e nel futuro anche dell’Ue) devono essere organizzate e attrezzate per essere rese sempre più integrabili con gli eserciti tecnologicamente più avanzati. Questo processo deve andare avanti senza battute di arresto o tentennamenti e, soprattutto, senza rinunciare al ruolo che ci spetta in quanto Paese ormai produttore di sicurezza nel mondo.

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