Siamo tutti riformisti. E rivoluzionari

di Bruno Pierozzi

Perché oggi si deve parlare di una sola sinistra

Dopo la fine delle esperienze dei diversi comunismi (Urss, paesi comunisti dell’Est Europa, compresi i cosiddetti “paesi non allineati” tra i quali ex Jugoslavia, Albania, Romania, e aggiungo Cina) nessuno ha più teorizzato (eccetto piccoli gruppi) la necessità di una rivoluzione proletaria da attuare con l’uso delle armi. Tutte le scissioni da sinistra venute nei partiti socialisti dopo la Rivoluzione di ottobre vertevano sulla questione della rottura con il riformismo socialista e sulla necessità della costituzione dei partiti comunisti come logica alternativa rivoluzionaria al riformismo parlamentare socialista.
Durante il corso della seconda metà del ‘900 alcuni partiti comunisti si sono resi conto che la rivoluzione proletaria non era attuabile per una serie di motivi – che sarebbe qui troppo lungo analizzare – e quindi ripiegarono su un comunismo nazionale fondato sul riconoscimento del parlamentarismo e della democrazia, anche se non ruppero mai con l’Urss (si pensi all’Eurocomunismo di Marchais, Berlinguer, Carrillo).
Dunque nei fatti abbiamo avuto un PCI in Italia che dal 1945 scelse giustamente la democrazia e la rappresentanza parlamentare come unico sistema di lotta politica. Non stiamo qui a rivangare le polemiche capziose che si trascinarono per anni tra “diversità comunista” e socialismo riformatore. Teniamoci al nocciolo dei fatti. In Italia a sinistra è esistito dal 1945 ad oggi solo il riformismo, anche se con due grandi partiti di massa: uno comunista e uno socialista.
Parlare oggi di inconciliabilità strategica – come leggo in alcuni interventi – tra socialismo e cosiddetta “sinistra antagonista o radicale” è davvero una offesa alla ragione. Attualmente esistono nella realtà italiana ben 5 piccoli partiti di sinistra, con relative rappresentanze parlamentari. Questi partiti sono tutti riformisti, benché alcuni testardamente non lo vogliano ancora ammettere apertamente. Non credo che Diliberto o Giordano ritengano che il superamento del capitalismo (per il quale anche io lotto come prospettiva strategica) sia la discriminante fondamentale dell’oggi tra chi si ritiene a pieno titolo socialista e chi nega ogni possibile approccio nell’ambito del socialismo europeo. C’è chi pretestuosamente tira fuori dalla cassapanca della roba vecchia una “diversità” che oggi francamente pare anacronistica e direi quasi ridicola.
Allora sarebbe opportuno aprire il confronto sui contenuti veri. Contenuti che oggi possono trovare un ancoraggio reale soltanto nel socialismo europeo, partendo dalla piattaforma del PSE del 7° congresso di Oporto del 2006, concreta base di discussione sulla quale verificare le convergenze e i dissensi. Purché i dissensi non siano dettati dal retaggio della storia, ma da fattive proposte per migliorare la piattaforma rivendicativa dei socialisti europei facendola avanzare.
Vorrei che i tanti critici a priori comprendessero che il socialismo e la sua forma organizzata ( partito) fa parte di un processo storico – dialettico di cui ognuno di noi è portatore di idee, che ne possono modificare il percorso. La politica attuale, quella dei partiti precotti e dei leader preconfezionati, si è orribilmente fatta strada anche tra compagne e compagni che un tempo non avrebbero mai detto o scritto, che tutto è già definito e che un partito è immodificabile. La dicotomia riformisti rivoluzionari si estingue nel momento in cui condividiamo tutti il sistema democratico parlamentare e abbiamo consapevolezza che occorrono delle riforme che modifichino strutturalmente il sistema capitalistico. Il metodo riformatore applicato coerentemente si può definire come una “rivoluzione progressiva” nella quale non è l’uso della forza a determinare i cambiamenti, ma la condivisione di massa delle strategie attuate, anche se queste strategie certamente non avranno la condivisione delle minoranze che detengono gli strumenti produttivi e finanziari.
Tutti i partiti e movimenti sorti in Italia a sinistra dopo il 1892 si sono distaccati da una unica casa madre quella del Partito Socialista. Perché allora invece di tentare impossibili costruzioni di “nuove identità” politiche non si ragiona tutti insieme sulla necessità di costruire un Partito Socialista di massa radicato nei posti di lavoro e nel territorio, che riprenda la sua essenza originaria, ovvero quella di un movimento per l’emancipazione dei lavoratori, per la lotta alla povertà, allo sfruttamento, per una società solidale e partecipata?(ADL)

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