SEI SOLDATI FERITI IN LIBANO: MA CHE CI STIAMO A FARE?

di Maria Giovanna Magliesabato 28 maggio 2011L'ipocrisia del G8: ecco perché la Siria non è come l'Egitto

di Marcello Foa

A Deauville nulla di fatto. L'ultima decisione concreta riguarda lo stanziamento di 40 miliardi per le rivolte spontanee dei paesi arabi. Ma sono state così spontanee?

Al G8 nulla di fatto e non è una sorpresa. Quasi tutti si chiudono senza decisioni politiche, com’è nella natura di questi summit, che in origine dovevano permettere ai grandi del mondo di incontrarsi informalmente e che ora sono diventati soprattutto un grande show mediatico.

L’unica decisione concreta riguarda lo stanziamento di 40 miliardi di dollari per sostenere le Primavere arabe. L’hanno presentata come se si trattasse di una grande novità, come se l’Occidente avesse deciso di sostenere le forze spontanee delle nuove democrazia arabe. La decisione, sia chiaro, è benvenuta: meglio regimi che aspirano ad essere democratici, piuttosto che i soliti governi autoritari; però non è del tutto veritiera. Come dimostrato da tempo su questo blog, la Primavera araba non è stata proprio spontanea e non ha fatto sorpreso Washington. Diciamo che… è stata incoraggiata e che agli eroi dei social network è stato fornito tutto il supporto necessario affinchè potessero avere successo.

I 40 miliardi sono solo l’ultima tranche di un processo iniziato almeno due anni fa, che si basava su una premessa fondamentale: tutto è avvenuto con la compiacente assistenza degli eserciti egiziano e tunisino, che erano e restano i veri garanti della stabilità di questi due Paesi. Grazie a loro la Primavera araba non è stata, per Washington, un salto nel vuoto, bensì uno sviluppo dall’esito quasi certo.

E questo spiega la differenza con la Siria. Perchè l’Occidente non sostiene le rivolte popolari in questo Paese? Se primavera deve essere lo sia soprattutto in regimi dittatoriali come quello di Damasco, ben più duri dei blandi regimi autoritari di Mubarak e Ben Ali. Però l’Occidente balbetta, lascia che la protesta venga repressa nel sangue proprio perchè non c’è sicurezza sull’esito finale della rivolta. Contrariamente a quanto avvenuto a Tunisi e al Cairo, gli americani non hanno potuto creare basi di sostegno nella popolazione civile, né possono contare sulla fedeltà dell’esercito. Questo rende imprevedibile lo sviluppo delle rivolte popolari. C’è il rischio che il Paese finisca in mano a forze estremiste, magari all’Iran o che divampi una guerra tribale, come avvenuto in Libano o in Iraq, con contagio ad altri Paese, a cominciare dal Libano, dove proprio ieri, forse non a caso, i caschi blu italiani sono stati attaccati.

E allora, tutto sommato, meglio tenersi lo sgradevole ma prevedibile Assad, almeno per un po’; almeno fino a quando non ci saranno certezze sul dopo. Dunque la Real Politik prevale sulla Primavera Araba, il calcolo sulla speranza.

Tutto il resto, come al G8, è retorica…

domenica 29 maggio 2011In Siria e Libano si combatte mentre al G8 si chiacchieradi Livio CaputoIl regime di Damasco ha ucciso oltre mille manifestanti e collaborato all’attacco contro i soldati italiani a Sidone. Ma i Grandi escludono un’azione militare

Siamo giunti alla decima «giornata della rabbia», i morti ammazzati sono ormai più di mille, i feriti quattromila e le persone arrestate oltre diecimila. Anche mentre i grandi erano riuniti a Deauville, migliaia di siriani stavano inscenando le ormai classiche dimostrazioni del venerdì. La rivolta, secondo fonti dei dissidenti (i corrispondenti dei giornali stranieri sono stati banditi da Damasco), si è ormai estesa a tutto il Paese, compresi alcuni insediamenti medio-borghesi che si presumeva fedeli al regime. Per evitare le repressioni più dure i ribelli hanno preso l'abitudine di dimostrare nelle ore serali, in cui le forze di sicurezza incontrano maggiori difficoltà ad operare. Ciò nonostante, il G8 si è limitato a invocare, nel suo comunicato finale, «la fine dell'uso della forza e delle intimidazioni della popolazione», a «incoraggiare una stagione di riforme in risposta alle richieste del popolo» e a chiedere la liberazione dei prigionieri politici. Nel suo discorso della settimana scorsa, Obama era stato un po' più esplicito, avvertendo che se il presidente Bashar non si decideva a iniziare una transizione, era meglio che «si facesse da parte» e Sarkozy gli ha fatto eco sostenendo di non avere più fiducia in lui. Sia gli Usa, sia la Ue, hanno adottato sanzioni nei confronti del capo dello Stato e di una decina di altri esponenti della nomeklatura. Ma il G8, che pure ha usato parole di fuoco contro Gheddafi, ha preferito limitarsi a minacciare un ipotetico quanto vago ricorso al Consiglio di Sicurezza e il segretario generale della Nato Rasmussen, ha escluso qualsiasi iniziativa militare.
Perché questa differenza di trattamento? Perché la piazza siriana, che pure mostra lo stesso anelito di libertà degli altri arabi, non riceve da parte della comunità internazionale l'appoggio che hanno ottenuto egiziani, tunisini e libici? La risposta è pura realpolitik: tutti, dagli Stati Uniti all'Europa, dall'Arabia Saudita a Israele, hanno paura che a una eventuale caduta del regime degli Assad e del clan alawita che lo sostiene subentri il caos. In quarant'anni, la maggioranza sunnita (in cui non manca una forte componente fondamentalista, che il padre di Bashar, Hafez, aveva massacrato ad Hama nel 1982) e gli altri gruppi religiosi e tribali in cui è divisa la popolazione hanno accumulato tali risentimenti nei confronti degli Assad che la loro cacciata comporterebbe quasi certamente un bagno di sangue, uno scontro di tutti contro tutti che tracimerebbe nei vicini Libano, Irak e forse perfino Turchia. Anche l'attentato di ieri contro i caschi blu italiani può essere attribuito a questa turbolenza. Gli stessi israeliani, che pure odiano Assad per la sua alleanza con l'Iran e l'appoggio che dà ai terroristi di Hezbollah ed Hamas riconoscono che dalla guerra del '73 ha mantenuto la tregua sul Golan e non ha quasi battuto ciglio quando l'aviazione dello stato ebraico ha distrutto un impianto nucleare che Teheran gli stava costruendo. «Meglio il diavolo che conosciamo di uno ignoto» è il ragionamento che fanno a Gerusalemme.
Le interferenze esterne nel braccio di ferro permanente che si è ingaggiato tra gli Assad e i dimostranti saranno perciò essenzialmente formali: molte dichiarazioni di condanna, magari una risoluzione del Cds, ma nessun appoggio concreto a un movimento insurrezionale comunque di composizione troppo incerta e frammentata per ottenere appoggi in Occidente. Rimane da vedere se, di fronte a una repressione spietata, che include anche la chiusura di Internet, la piazza riuscirà a tener duro abbastanza a lungo per ottenere dei risultati. Il problema, secondo la maggioranza degli analisti, è che Bashar ed i suoi sanno di combattere per la propria sopravvivenza, perché in regime di democrazia la minoranza alawita oggi dominante sarebbe sommersa; e fino a quando le forze di sicurezza rimarranno loro fedeli, cercheranno magari (come è avvenuto martedì) di contenere il numero delle vittime, ma difficilmente concederanno riforme che non siano di pura facciata.

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