C’è una distanza siderale che separa la piazza di Torino colma di italiani “normali” finalmente disposti a dismettere i panni di “maggioranza silenziosa” per dire la loro, e il governo Salvini-Di Maio-Conte (in ordine decrescente) perennemente sull’orlo di una crisi di nervi. La prima offre dell’Italia un’immagine fatta di gente educata e competente che lavora, produce, crea ricchezza. E che chiede modernità ed efficienza essendo disposta, in cambio, a sottoporsi al rigore e alla selezione meritocratica. Il secondo, nonostante la presunzione di sentirsi non solo espressione elettorale del popolo, ma anche e prima di tutto la sua incarnazione, proietta l’immagine di un paese internamente litigioso, incompetente, pasticcione fino al clownesco, renitente alla modernità e al progresso scientifico, giustizialista. E verso l’esterno appare chiuso, isolato, tanto inconsistente quanto presuntuoso, persino pronto a mostrarsi felice delle attestazioni altrui di scarsa (o nulla) credibilità, quasi fossero medaglie da appuntarsi al petto. Ora, la questione è: quale di queste due Italie è la più rappresentativa di quella vera? Fermo restando che nell’epoca della complessità, e tanto più in un paese frammentato e altamente individualista, è ragionevole pensare che a vario titolo lo siano entrambe, non vi è dubbio che stando alla democrazia quella maggiormente espressione dell’Italia reale è la seconda. E questo anche se, pur essendo maggioranza in Parlamento, 5stelle e Lega nel paese non rappresentano che un terzo o poco più dei cittadini. Infatti, i loro 32,7% e 17,4% raggiunti il 4 marzo su una platea di 73 italiani su 100 aventi diritto al voto, diventano in realtà 23,1% e 12,6% sul 100% degli elettori. E hanno comunque pienamente titolo di essere al governo e di dirsi rappresentativi dell’intero paese, nonostante la loro alleanza non sia scaturita dai rispettivi impegni elettorali e quindi dalle urne. Se poi si dovesse dar retta ai sondaggi, lo sarebbero ancor più oggi, visto che i due partiti, seppure con fortune opposte, sono accreditati di un bottino elettorale complessivo che sta tra il 60% e il 65%. Di conseguenza, sembra inevitabile arrivare alla conclusione che quella piazza di Torino meravigliosamente piena di gente che senza bandiere e senza rabbia ha manifestato, in modo composto e civile, per dire Sì alla Tav e più in generale alla modernizzazione delle infrastrutture del nostro sgangherato paese, altro non è che una minoranza. E come tale, destinata a restarlo. Noi, invece, siamo convinti che le cose stiano diversamente da così. Quella torinese è sì una minoranza – per forza di cose, non c’era bisogno che Marco Travaglio, con il suo consueto garbo, ricordasse alle sette “madamine borghesucce” organizzatrici della manifestazione, che in piazza c’era un torinese su 35 o un piemontese su 177 – ma molto più rappresentativa di quanto i movimentisti abituati a riempire le piazze con i loro “vaffanculo” non pensino. Una piazza che incarna quella “maggioranza silenziosa” che finalmente sembra volersi ribellare alla sottomissione, culturale e politica, che si è lasciata colpevolmente imporre da “minoranze rumorose” di ogni tipo. Gente che pensa che il “governo del popolo” stia mettendo nei pasticci il reale popolo italiano come mai nella storia della Repubblica, e che ha deciso di dirlo non più solo nelle conversazioni con gli amici, a casa o in ufficio, ma facendo una cosa che non gli è né abituale né congeniale, scendendo in piazza per un rito collettivo di protesta, composta, e di proposta, ragionata. Qualcuno l’ha chiamata la “rivoluzione silenziosa” che potrebbe dare lo sfratto al “governo del cambiamento” che non cambia nulla, e quando lo fa peggiora le cose. Forse è esagerato. Altri hanno osservato che si tratta di un fenomeno circoscritto alla buona borghesia del Nord, che teme di perdere i suoi privilegi. Grillo si è fatto interprete di questo sentimento, aggiungendoci il rancore e il dileggio che gli sono propri, parlando di “borghesi e borghesucci” come se esserlo fosse un disdoro. Sbagliato due volte. Primo perché chi in Italia a detenere privilegi è un’altra borghesia, quella parassitaria, che occupa equamente tutta la penisola e che, semmai, sta più a Roma che altrove. Secondo, perché il fenomeno torinese non è isolato. Abbiamo già avuto modo di sottolineare qui i fermenti del mondo imprenditoriale, che hanno avuto nell’assemblea di Assolombarda l’espressione massima. Ma, non vi sembri paradossale, noi vediamo anche a Roma, proprio nella Capitale dei difetti italici e della peggior dimostrazione di incapacità amministrativa e politica dei 5stelle al potere, anche il seme dei fermenti che potrebbero portare la maggioranza afona a farsi sentire. E li vediamo non solo nella manifestazione di qualche settimana fa al Campidoglio, anche in questo caso organizzata da un manipolo di donne coraggiose, ma persino nel referendum sulla liberalizzazione del trasporto pubblico locale, che pure non ha raggiunto il quorum del 33% (cancellato dalla giunta Raggi ma truffaldinamente lasciato in vita in questa circostanza). E già, perché se ci pensate bene, dei 386.900 votanti (pari 16,4% del totale) il 74% ha detto Sì, pari al 12,1% degli aventi diritto. Questo vuol dire non solo che oltre 286mila romani si sono espressi, in una consultazione comunque consultiva anche se il quorum fosse stato raggiunto, a favore della liberalizzazione – cosa che suggerirei a chi è al governo della città e del paese di non sottovalutare – ma soprattutto che quel 12,1% è una percentuale pressoché simile a quella della Lega alle elezioni politiche se calcolata anch’essa sugli aventi diritto (12,6%) e meno della metà di quella dei pentastellati (23,1%). Cioè, percentuali di reale rappresentatività che consentono – legittimamente, come detto – di stare al governo. Dunque, non si vede perché quella dei Sì al referendum dovrebbe essere considerata insignificante, anziché politicamente rappresentativa di una fetta rilevante della società civile. Infine, tornando alle reazioni in merito alla “marcia del Sì” contro la “cultura del No”, va registrata l’osservazione di chi, pur essendone emotivamente partecipe, la ritiene monca perché priva di rappresentanza politica, e quindi di sbocchi elettorali. Ora questa è un’osservazione fondata, e non solo perché banalmente la piazza era priva di bandiere e insegne politiche, ma nello stesso tempo ribaltabile. Infatti, è evidente che quell’Italia è senza rappresentanza. Persino di quella associativo-sindacale, visto che i corpi intermedi della società, fiaccati dall’impoverimento delle loro leadership e dalla disintermediazione imposta dai populisti non dichiarati che ci hanno governato (Berlusconi e Renzi). Ma la notizia è che finalmente se ne è accorta e manifesta tutto il suo disagio. Insomma, sappiamo da tempo che il vero problema politico italiano è il “partito che non c’è”. E ora qualcuno si è incaricato di metterlo in evidenza. Se sarà la stessa gente che è scesa in piazza a Torino e Roma – e che a nostro giudizio presto lo farà a Genova, dove il malumore per il vuoto penumatico populista è esplosivo – a darsi concretezza politica, o se invece saranno altre persone e altri mondi, magari politicamente più maturi di piazze indubbiamente più di merito specifico che di scenario strategico, a cogliere l’opportunità e a fare di quello che non c’è qualcosa che finalmente c’è, questo lo vedremo. Certo, non potranno essere le forze di governo, ovviamente, ma neppure quelle sbrindellate dell’opposizione (sic), a poter raccogliere l’istanza di vedere in politica nuove classi dirigenti, nuove leadership, e soprattutto nuove idee. Non ne hanno la credibilità. Ma ciò che importa è che un processo si metta in moto. Si può discutere se sia già accaduto, o se ancora siamo alle premesse. Ma ci siamo. Anche perché, mentre il paese è messo al bando in Europa e non solo dalla vituperata Commissione Ue di Bruxelles ma da tutte le cancellerie con in testa quelle dei paesi maggiormente nazionalisti, il rischio è che la deriva populista e sovranista ci trascini nel baratro. E se ciò accadesse, allora le piazze si riempirebbero in modo ben diverso da come è successo fin qui. Dio non voglia. |
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