SE àˆ NATO IL “GOVERNO TRIA” SAREBBE IL CASO CHE L’EUROPA E PD E FORZA ITALIA LO SOSTENESSERO SENZA RISERVE

Finalmente. Sgombrato, o quasi, il campo dai temi civetta, la politica economica conquista la scena. Anche quando si è fatto finta che fosse diversamente, la sorte di tutti i governi è sempre dipesa dalla congiuntura economica e dalle scelte fatte, o non fatte, su quel fronte. Con ben tre giudici severi pronti ad emettere sentenze: i cittadini, l’Europa e i mercati. Berlusconi, pagando il conto in solido per l’intera Seconda Repubblica, nel 2011 fu sanzionato dai mercati attraverso lo spread per non aver saputo affrontare la recessione. Monti, che quei mercati doveva calmare e che verso l’Europa portava un rispetto eccessivamente acquiescente, fu punito dagli italiani per eccesso di rigore, finendo per fare di ogni erba un fascio tra rigore positivo (la legge Fornero) e rigore negativo (le manovre fiscali). Italiani che poi punirono Renzi – verso il quale fu rapido il cambiamento di umore tra il 40% di consensi conquistato alle elezioni europee del 2014 e i tonfi del referendum costituzionale del dicembre 2016, le amministrative di giugno 2017 e le politiche di quest’anno – per aver raccontato un risanamento che non c’è stato e millantato una ripresa che per quel po’ che c’è effettivamente stata, è dipesa da ben altro che dagli aiutini a pioggia tipo “80 euro” e “bonus cultura”.

E l’esecutivo gialloverde del “cambiamento”? Fin qui non si è ancora misurato con il nodo dell’economia. Non lo ha fatto in sede di programma, pardon contratto, di governo, laddove si è limitato a sommare scelte diverse, e tra loro largamente inconciliabili. E tantomeno lo ha fatto nel vivo dell’attività di governo, che non c’è stata, a parte il provvedimento sul lavoro voluto da Di Maio per tamponare l’eccesso di protagonismo di Salvini. Tocca quindi affidarci alle dichiarazioni programmatiche. E qui casca l’asino, perché di governi ce ne sono almeno due, se non molti di più, a seconda del grado di distinzione che si vuole applicare. Infatti, i confini sono mobili e non tracciati, ma volendo si possono distinguere: a) il governo Salvini; b) il governo Giorgetti (può sembrare lo stesso del segretario della Lega, ma non è così perché le differenziazioni, di carattere politico e personale, sono più di quelle che i due vogliano dar da vedere); c) il governo Di Maio, in crescente autonomizzazione da tutti, compreso Casaleggio; d) il governo dei 5stelle non allineati al vicepremier, a loro volta distinguibili in una componente movimentista (Grillo, Di Battista) e in una di sinistra (Fico); e) il governo Conte (il presidente del Consiglio, approfittando dei summit internazionali sta cercando di ritagliarsi quanti più spazi possibile, e mette crescente attenzione alla necessità di costruirsi una squadra tutta sua); f) il governo Tria-Moavero, cioè dei ministri fortemente voluti dal Quirinale e che alla presidenza della Repubblica guardano con sacrale attenzione.

Ma restiamo alla distinzione più evidente, e decisiva ai fini della politica economica: quella tra il ministro dell’Economia e i due leader della maggioranza penta-leghista. Non c’è dubbio che prima con un’intervista di grande respiro al Corriere della Sera, poi con interventi di spessore alle Commissioni Bilancio delle due Camere, il ministro Tria ha delineato una strategia tanto netta quanto, da parte nostra, condivisibile, che non sappiamo, perché nessuno si è espresso in merito, se sia condivisa dal presidente del Consiglio e dai due azionisti del governo. Sta di fatto che non risulta sia mai stata discussa in sede di governo – almeno non pubblicamente – né è stata commentata successivamente. Inoltre, usando il buonsenso, essa appare assai distante, o quantomeno distonica, rispetto alle affermazioni, seppur da campagna elettorale, di Salvini (soprattutto) e Di Maio.

Cosa sostiene Tria e perché è interessante la sua linea? Semplice: il ministro dell’Economia non nega, anzi, la necessità del cambiamento rispetto ai fallimenti di chi ha guidato i governi degli anni indietro – e non solo l’ultimo, come abbiamo visto – ma rifiuta l’equazione che la crescita si può fare solo la spesa pubblica, equazione a cui si possono anche sacrificare i legami europei pur di fare deficit spending, e tende a coniugare risanamento finanziario e sviluppo attraverso una dialisi tra spesa corrente improduttiva e investimenti in conto capitale, chiedendo alla Ue flessibilità solo per questi ultimi. Tria lo ha sempre detto da economista e lo ha ribadito ora: bisogna invertire la logica che vuole il perno della politica economica nella domanda, e invece riqualificare l’offerta attraverso un piano di investimenti pubblici, volano e moltiplicatore di quelli privati, e alimentare lo sviluppo infrastrutturale del Paese.

Naturalmente, è dal passaggio da una linea di principio al dettaglio delle misure concrete che si capisce la vera qualità di una politica. Ma già è importante che il principio sia giusto. E quello di Tria lo è. In una situazione come l’attuale, confermare la “permanenza dell’Italia nell’euro”, indicare “la riduzione del debito e il contenimento del deficit” come stelle polari, imbrigliare nella “gradualità” la realizzazione del programma, rinviando ad opportune verifiche tutte le misure, che comunque “devono rispettare i vincoli di bilancio” sapendo che “le risorse aggiuntive devono essere trovate entro i limiti della credibilità”, non sono affermazioni da poco. Sono paletti giganteschi, quelli che Tria ha voluto piantare. Certo, la sua consistenza politica è quella di un tecnico, seppur spalleggiato dal Quirinale. Ma ora qualcuno dovrà assumersi l’onere e la responsabilità di smentirlo, se vorrà cambiar strada.

Vedremo se la linea Tria, che potremmo definire di “sviluppo & rigore”, terrà, sul fronte interno come in Europa. Certo, sarebbe importante che Ue e Bce facessero sentire la loro voce. E, soprattutto, che le opposizioni – ammesso che siano vive – considerassero “lungimiranti” gli impegni programmatici di Tria, e li sostenessero, facendo cosa utile al paese e a sé stesse. Sicuramente lo hanno fatto i mercati, che considerando quella di Tria una linea Maginot hanno messo in stand by le pressioni sulla Borsa e sullo spread dopo l’iniziale fiammata speculativa. In tutti i casi, sarà la prossima manovra di bilancio il banco di prova definitivo del governo. Ma, vivaddio, almeno abbiamo una certezza: il riformismo è cosa diversa dal populismo e dal sovranismo. Con tutto quel che ne deriva.

Per ulteriori informazioni, consultate il sito www.terzarepubblica.it o scrivete all’indirizzo redazione@terzarepubblica.it

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