LEONARDO SCIASCIA: VOCI CONTRO IL PROIBIZIONISMO GIURIDICO

Negli ultimi anni in molti hanno inteso esprimere un plauso e un ricordo nei confronti di Leonardo Sciascia, anche da spalti che, mentre il grande scrittore era in vita, non si erano distinti nel condividerne le cause o nell’apprezzarne le scelte stilistiche più ricercate. Basti pensare che di Sciascia si parlò sul pur prestigiosissimo Osservatore Romano, nonostante l’intellettuale siciliano fosse apertamente anticlericale (un lato sovente sottaciuto nelle “agiografie” contemporanee) e, tuttavia, nelle commemorazioni di parte ecclesiale un fondamento condivisibile c’era: quello di una basilare antropologia umanistica nel pensiero di Sciascia, nonostante il rifiuto di “divise” e “parrocchie”.
E Leonardo Sciascia viene ricordato anche dagli ultimi epigoni del Partito Comunista Italiano, che non lo amarono mai particolarmente, salvo il tentativo di recuperarne il profilo di grande impegno civile al tempo del “buongoverno”, quando, rotto ogni legame di classe (anche sul piano formale), il PCI si preparava a penetrare nel frenetico e generico “pantheon” di ideologie mal conciliabili che proseguirà, più gravemente, col PDS-DS-PD (il premier Renzi, pur provenendo da un certo cattolicesimo vicino alla Democrazia Cristiana, unito all’appeal comunicativo del berlusconismo, può pescare in qualunque immaginario proprio perché il suo partito non ne ha più uno).
In realtà, come ben ricorda Lanfranco Palazzolo e pur con tutte le -mai troppo evidenziate- tipicità del caso, fu soprattutto, sul piano politico, “deputato” (intellettuale, militante) radicale. Nella misura in cui la vicinanza di Sciascia al radicalismo italiano fu, innanzitutto, una voce matura e seria contro il proibizionismo giuridico.
Tra i primi ad intuire le connessioni che la grande criminalità organizzata andava tessendo rispetto al potere finanziario, Sciascia avversò con tenacia le leggi dell’emergenza: draconiane coi deboli e inadeguate nel realizzare obiettivi davvero condivisibili di sicurezza sociale. Non solo: riteneva arretrata la codificazione penale e processuale penale, pur non criticandone aprioristicamente l’ambizione sistematica che certo aveva quando venne emanata.
Non era favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, è vero, ma ammetteva apertamente che in ciò potesse essere influenzato dal dilagare del consumo di stupefacenti negli anni della sua maturità civile e letteraria -una massificazione che solo l’antiproibizionismo sembrava avere a cuore di contenere alla radice.
Non era un moralista nel senso più tedioso e conformistico del termine. Al bigottismo che non riesce a contrastare -e, forse, culturalmente fomenta- le peggiori perversioni, preferiva una sobrietà declinata in modo consapevolmente non sanzionistico.
Il forte potere, se non vuole essere apparato di prevaricazioni, ha una sola possibilità: difendere il decoro del debole.

Domenico Bilotti

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