GIACHETTI, MORANI E GRASSO:IL DIAVOLO FA LE PENTOLE MA NON I COPERCHI

Roberto Giachetti, ex radicale e ora VicePresidente della Camera, eletto, già all’uscita di scena di Bersani, in quota Renzi, è un politico molto attento al dato istituzionale. Lo fa il più delle volte con merito. Il lungo sciopero della fame per la legge elettorale sembrava manifestare dei lati grotteschi, ma almeno teneva i riflettori accesi su una contraddizione scoperta: tutti contestavano la vigente legge elettorale, nessun progetto era stato mai davvero messo alla prova parlamentare. Risultava già meno convincente la proposta del “sindaco d’Italia” (mai recepita né dal Partito Democratico né dalla componente di Matteo Renzi, sia quando era minoranza interna, sia ora largamente maggioritaria). È auspicabile che anche quella proposta fosse orientata a smuovere le acque, perché la sua praticabilità era molto limitata e le aporie tanto costituzionali quanto materiali del tutto evidenti: traslare pedissequamente la legge elettorale applicata ai consigli comunali al parlamento (ancor più se in assetto “bicamerale”) non sarebbe riuscito nemmeno al più perito -o imperito, punti di vista- ingegnere costituzionale.
Da VicePresidente, Giachetti tiene, però, lo scranno con competenza, efficacia e rispetto delle garanzie. La sua “conduzione” non dispiace e puntuali sono le sue sottolineature. Nell’ultimo periodo, comunque sia, le sue considerazioni sui deputati del Movimento Cinque Stelle, volta per volta chiamati ad intervenire, a relazionare o a controbattere, non sono parse particolarmente serene: più che una specifica frase, ha stupito la condotta non raramente stizzita, a volte sbrigativa, a volte apertamente di rimprovero. Se alcune iniziative dei deputati grillini non paiono certamente obliterabili, nel gioco della dialettica d’aula, la Presidenza non dovrebbe mai incancrenire i rapporti (già pessimi, con la “titolare”, la Presidentessa Boldrini, che non è riuscita a imporsi nelle simpatie della Camera, tanto verso le opposizioni quanto persino verso alcune componenti di maggioranza). Soprattutto chi viene da percorsi più “innovativi”, al di fuori dei sei/sette partiti consolidati della Prima Repubblica, dovrebbe, invece, sapere conciliare le diverse istanze e aprirsi, ove possibile, al contributo delle stesse componenti più riottose.
Sulla scia di questa medesima (mancata) sensibilità, bisognerebbe considerare anche la scelta del Presidente del Senato, Pietro Grasso, di proporre la costituzione del Senato come parte civile nel processo sulla “compravendita” dei senatori. Bene ha fatto Grasso a rimarcare che moralmente l’istituzione rappresentativa dovrebbe sentirsi estranea a simili corruttele, al punto da voler vedere riconosciuta in giudizio la lesione patita ad opera dei rappresentanti “infedeli”. Ciononostante, si può sommessamente notare come tale impostazione sia fallimentare dal punto di vista politico, poiché appare smaccatamente, e ulteriormente, punitiva nei confronti del leader del centrodestra (in uno di quei procedimenti che lo riguardano a un livello di più complicata “probabilità giudiziaria” e di minore avanzamento sul piano del formale accertamento processuale). E se anche tali obiezioni non avessero alcun fondamento, le contrarie opinioni espresse dall’Ufficio di Presidenza avrebbero dovuto indurre il Presidente alla ricerca di una mediazione, soddisfacente sul piano giuridico, nonché su quello della “presentabilità morale” dell’istituzione.
Questa altalena tra istanze legalitarie e difficile gestione della fase politico-parlamentare riguarda pure l’organizzazione interna del Partito Democratico e, segnatamente, il nucleo dei fedelissimi del Segretario: squadra giovane, di freschezza sul piano comunicativo e non estranea ad alcune proposte politiche su cui possa essere di interesse ragionare.
Ci si permetta, però, di sottrarci al coro degli entusiasmi quanto alle posizioni espresse dalla responsabile Giustizia, Alessia Morani. Non certo per dire, come pure alcuni hanno fatto, che l’esponente politico non sarebbe in grado di occuparsi del tema, perché non lo ha mai incisivamente fatto sul piano della sua esperienza in istituzioni di rappresentanza (anche perché l’Onorevole lo ha fatto, al contrario, nel suo percorso professionale).
E nemmeno per ironizzare sulla sciatta esibizione in TV, a Ballarò, anche perché essa è parsa al limite poco comprensibile ancor prima che deprecabile.
Ben più opportunamente, non ha convinto la sua posizione sul “decreto carceri”. Renzi ha condotto la campagna elettorale per le Primarie assecondando un umore che a Sinistra è stato sventolato, da Di Pietro in poi, da moltissimi, dentro e fuori il suo partito: no all’indulto, no all’amnistia, no alla via referendaria per l’abrograzione della Fini-Giovanardi e della Bossi-Fini (nei loro punti più afflittivi). Sul Governo e sulla maggioranza, però, pende come una mannaia il monito che giunge dall’Europa sui nostri luoghi di detenzione: una mannaia “morale” (come direbbe il Presidente Grasso, come ha fatto capire Giorgio Napolitano), che si traduce in costi economici che la “bisaccia tricolore” non può permettersi di affrontare.
Bene, la responsabile Giustizia ha concluso che il “decreto carceri” consente di sanare questo gap. E questa è, purtroppo per i soldi che pagheremo e la vita di migliaia di detenuti e loro familiari, una colossale fesseria. Il decreto riguarda soltanto le modalità di riscontro e controllo dell’esecuzione penale, non depenalizzazioni o legalizzazioni, non amnistia e indulto, né riforme strutturali sulle azioni processuali. Per adeguarci all’articolo 111 della Costituzione, alle raccomandazioni delle maggiori istituzioni (comunitarie e non), alla stessa idea di giustizia… il “decretino” non basta proprio.
Domenico Bilotti

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