Diciamoci la verità: il nuovo ciclo che avrebbe dovuto imprimere alla politica, vista da Sinistra, la plebiscitaria vittoria di Renzi stenta a vedersi; anzi, sin qui paiono più i danni degli utili. Non solo perché dietro una vittoria così schiacciante si sono annullate tutte le differenze e si affaccia la tentazione di vedersi come in un “unicum” indistinto, appianate tutte le divergenze politiche e fintamente scollate e malcelate quelle partitiche. Se guardiamo alla composizione del gruppo dirigente che il sindaco di Firenze ha inteso portare con sé, non è tanto infondato notare come ciascuno dei prescelti si distingua, sostanzialmente, per non essersi mai distinto nel settore di assegnazione. Se guardiamo ai provvedimenti annunciati, involventi, grosso modo, improbabili tratti di riforma costituzionale, c’è lo spot del miliardo in meno di costi sulla politica che somiglia (segno di crisi anch’esso) al ben più sostanzioso “milione di posti di lavoro” delle prime campagne elettorali di Silvio Berlusconi.
Una battaglia proclamata contro le Province, dalle cui fila vengono Renzi e molti renziani, pretesa abolizione del Senato, in nome della sostanziale ingovernabilità in cui sarebbe stato buttato dalla pessima legislazione elettorale vigente. Persino i renziani di antico conio, divenuti “mainstream”, non riescono più ad appassionare. Si intestano battaglie che, per dirla con una canzone dei Manic Street Preachers (super-inno degli anni Novanta arrabbiati e “no global”), non daranno da mangiare ai nostri figli. Basti pensare al vicepresidente della Camera, Giachetti, che, pur creandosi con lungimiranza l’impronta del riformatore super partes, non sembra, poi, quando espone materialmente le sue idee, avere concepito una prospettiva organica sulla riforma dei sistemi della rappresentanza. Oscilla tra incomprensibili mattane di sicura presa (come il mitico “sindaco di Italia”… quanto diverso dall’amministratore delegato di “Azienda Italia”?) ed echi nostalgici per la legge Mattarella che fu.
Difficile che una simile attenzione all’ingegneria parlamentare, peraltro debolmente accompagnata da una sua effettiva padronanza, potrà spostare di una virgola gli equilibri sociali del Paese.
Il PD di Renzi rischia, inoltre, di sembrare un partito a vocazione antiumanitaria. Senza volere forzare nelle polemiche, si ricordi che il segretario in carica ha ferocemente combattuto, e fuori dal Parlamento, in una democrazia inceppata come quella tricolore, sembra contare ancora di più, ogni proposta di indulto e amnistia. Il riassetto della legislazione penitenziaria che si propone sembrerebbe non all’altezza nemmeno del mini-svuota carcere targato Letta e Cancellieri (sulla cui posizione politica Renzi non ha tenuto un profilo da grande statista, a onor del vero, insistendo sull’opportunità di dimissioni irrevocabili, poi mai secondate sul piano del dispositivo giuridico con cui realizzarle o, almeno, verificarne la fattibilità).
Minacciosissimo sembra il “Nostro” quando parla di diritto del lavoro: basta alle migliaia di norme che lo ingolfano -e ci mancherebbe, buona battaglia che troppi laburisti del PD non hanno mai voluto percorrere. E poi diventa un’impresa capire come vorrebbero essere sostituite e scarnificate tutte quelle norme, con l’impressione che la vera e propria scarnificazione rischierà di riguardare i diritti acquisiti.
Certo: non si può pretendere che vincendo le Primarie si cambi verso al Paese (nonostante fosse questo lo slogan di partenza). Però, il tempo è maturo per vedere un po’ più in concreto il nucleo di questa svolta. Il patto di coabitazione Renzi-Letta si consuma nello stesso partito: mai successo in Europa, ove tali patti riguardano partiti diversi e addirittura coalizioni -composizioni sociali- diverse, come suggerisce la migliore teoria costituzionale. E questo patto rischia di sembrare una sorta di armistizio del reciproco immobilismo. Esattamente il contrario di quello che bisognerebbe attivare.
I forconi non sono riusciti a riproporre i disagi colossali dell’anno passato. Ha senz’altro nuociuto loro il cappello che avrebbero voluto calzarvi i movimenti di Destra nel Paese: una proposta così asciutta, quasi solo di denuncia (vaga ma giusta) sulle condizioni difficili del momento e non pervenute le misure attuative per uscirne, mal si presta alla sistematica infiltrazione di una guida politica particolarmente settaria o verosimilmente eccessivamente connotata.
Sulle condizioni materiali che la hanno determinata, però, i Soloni del nuovo riformismo non paiono avere riflettuto quasi affatto. E questo è un limite, quanto richiamare alla giustizia sociale con motti, simboli e drappi che non rimandano a momenti felicissimi della vita italiana.
Domenico Bilotti