CONTRO LA MAFIA DEI PARTITI, CENTRI SOCIALI AUTOGESTITI?

Hanno suscitato un certo clamore le dichiarazioni del procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, nelle quali si invitavano i boss mafiosi di più elevato lignaggio ad abbandonare le connivenze col ceto politico, perché esso ne lucrerebbe il consenso, scaricando, però, i malavitosi, non appena su di essi si abbatta la mannaia della repressione giudiziaria (perciò, ai politici e alle alte amministrazioni resterebbe da mettersi a cercare nuove interlocuzioni, con nuovi esponenti dei cartelli criminali più forti).
La ricostruzione non rende davvero la visibile irritualità che pure si deve essere plasticamente respirata e presentita mentre il procuratore si diffondeva nello svolgersi della singolare argomentazione.
V’è una componente chiaramente antiretorica nelle frasi di Teresi, da non banalizzare, pretendendo di anteporvi la condanna: a ogni livello del consesso criminale, i primi petali ad essere sfogliati sono quelli più esposti all’attività giurisdizionale e investigativa. Non importa che essi siano, o meno, i più velenosi. Non importa se si tratti di quelli più facili da stracciare e da rimpiazzare. Il fulcro (lo stelo, se vogliamo stare in metafora) delle attività delinquenziali non viene meno, se ne alternano i terminali più facilmente rintracciabili e contrastabili. Certo è che questa rappresentazione meglio dovrebbe ritenersi attendibile quando si parla di microcriminalità: una serie di blitz può indebolire una compagine dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti al “minuto”, ma difficilmente attacca anche la fase dell’approvvigionamento di larga scala.
Nei comparaggi tra certe sfere della politica e detentori del potere extralegale risulterebbe complesso individuare quali siano le componenti esteriormente più visibili e quelle, invece, più durevoli, all’ombra della loro continua e oscura mimesi. E le frasi del procuratore implicherebbero una certa ineluttabilità di questi rapporti, per cui il boss “bussa” alle porte del politico, in cerca di convenienze che divengono presto reciproche: presto o tardi, il boss incorre nella repressione penale, mentre il manager, il colletto bianco e il politico di lungo corso se la sfangano, mollando il soggetto criminale (che pure potrebbe ricattarli) alle intemperie di lunghi procedimenti penali ed ergastoli a pioggia.
Ridotta a questi termini, la ricostruzione ha un che di deliberatamente farsesco. Il cappio del malaffare, se molto più spesso stringe il collo del criminale, che cova nell’omertà e che assiste, alla fine della propria cosca, al permanere dei rapporti economici e istituzionali che aveva intessuto, strangola non raramente anche il politico doppiogiochista, che vive la propria funzione con immobilismo parassitario, in attesa di placet e pericoli scampati. Vogliamo sperare, per altro verso, che tali ipotesi siano residuali e che non siano le autorità giudiziarie a rassegnarsi al loro divenire, invece, regola e routine.
Semmai, quel che possiamo con meno incertezze recuperare, dall’analisi di Teresi, è il gioco della partecipazione politica, nel suo insieme: le procedure democratiche esigono che le forme della decisione passino dal coinvolgimento di una determinazione plurale; affidare il punto nodale di questa dimensione a chi risulti semplicemente il prescelto di un procedimento elettivo, nei fatti fortemente oligarchico, non fa che implementare senza ragione il potere esercitato da quell’uno che ottiene la sanzione elettorale.
È di moda indicare (e additare) i partiti come comitati d’affare. Cartelli che si riuniscono in forma di comitati elettorali, locali e non. Non siamo d’accordo: i partiti hanno un ruolo costituzionalmente orientato nell’articolazione della volontà popolare e nell’approfondimento dei rapporti sociali. La degenerazione, in breve, non è figlia del loro ruolo, ma di chi ne ha abusato, anziché percorrerlo. Lo scadimento dei partiti ha prodotto una generazione di attivisti che da Genova in poi ha rinverdito lo slogan della Pantera Universitaria dei primi anni Novanta, slogan forse roboante, ma schietto, persino umanitario. Uno slogan che il 19 Ottobre nei mille vichi di Roma è risuonato con entusiasmo: “contro la mafia dei partiti, centri sociali autogestiti”. Ma siamo sicuri che il procuratore aggiunto intendesse riferirsi a questo fenomenale investimento collettivo sull’autogestione? Più probabilmente, invitava i boss ad allentare i legami con chi è troppo abituato a farla franca. Non per propria sveltezza (non siamo a queste altitudini machiavelliche), ma per le congiunture del sistema, che tendono a chiamare “tana libera tutti” ai più prepotenti. Grandi elettori o killer, che siano.

Domenico Bilotti

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