L’ora della verità . Trent’anni fa l’omicidio Caccia, un mistero ancora irrisolto

di Nicola Tranfaglia

Chi avrà l’occasione di leggere “Il giudice dimenticato” di Nicola Tranfaglia e Teresa de Palma per le Edizioni Gruppo Abele, si renderà conto che siamo di fronte a uno dei misteri italiani che resiste ancora a cinque processi già celebrati.
Il 22 giugno scorso un articolo sul quotidiano «La Stampa» ha portato alla luce nuovi spunti e particolari sulla vicenda che tolse di mezzo uno dei migliori magistrati che aveva combattuto con le armi della giustizia – con tutte le garanzie previste – le Brigate Rosse per il rapimento Sossi e che da alcuni anni si occupava delle mafie presenti in Piemonte e non a caso della cosca ‘ndranghetista di Domenico Belfiore, divenuta negli ultimi anni una potenza finanziaria, in grado di controllare il Banco dei pegni di piazza Carignano e la gioielleria di via Roma Corsi, ma soprattutto avendo rapporti non chiari con alcuni magistrati torinesi anche attraverso il tesoriere della banda Franco Gonella.
Hanno tutte le ragioni, a mio avviso, i tre figli del procuratore che ora hanno chiesto con il patrocinio dell’avvocato Repici, la riapertura del processo.
L’episodio, appena riferito dal quotidiano torinese, riguarda un’intercettazione del 19 giugno 2009 di cui è venuto in possesso il legale che ha assunto la difesa dei figli di Bruno Caccia. Al telefono parlano il pubblico ministero Olindo Canali (sotto processo a Reggio Calabria per falsa testimonianza al maxiprocesso alla mafia barcellonese “Mare Nostrum”, condannato in primo grado e assolto in appello lo scorso 22 maggio, ndr) e lo scrittore Alfio Caruso che sono al lavoro a Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia per ricostruire sulla carta il quadro criminale della città. Quando parlano del mafioso del luogo, avvocato Rosario Cattafi, il magistrato riferisce allo scrittore: “A casa sua hanno sequestrato la falsa rivendicazione delle Brigate Rosse preparata sull’omicidio Caccia”.
E questo particolare che non era mai emerso nei cinque processi seguiti alla morte di Caccia ha fatto pensare agli inquirenti che il mafioso siciliano sia stato autore del tentativo di depistaggio che, dall’inizio, caratterizza il brutale omicidio. Ex giovane militante della destra eversiva, è accusato di omicidio ed estorsioni e anche di intestazione fittizia di beni e associazione mafiosa. Cattafi, secondo i magistrati, era l’intestatario di un conto corrente aperto nel 1978 presso il Credito Svizzero di Bellinzona che serviva al mantenimento dei latitanti dei clan mafiosi catanesi.
L’interrogativo che si pongono ora i giudici – ma anche i pochi storici e scienziati sociali che continuano a studiare l’intreccio tra massoneria, servizi segreti e mafie soprattutto negli anni settanta e ottanta del Novecento – riguarda il fatto non spiegato finora che la falsa rivendicazione non è mai entrata nel processo per l’omicidio Caccia. E perché non si è approfondito il capitolo dei soldi riciclati attraverso i Casinò?
E in definitiva come si fa ad arrivare alla verità su un magistrato ucciso al Nord, all’inizio degli anni Ottanta, contemporaneamente a delitti politico-mafiosi compiuti a Palermo con l’uccisione del presidente della Regione Pier Santi Mattarella, del segretario provinciale del Pci Pio La Torre, dell’ex deputato comunista e giudice istruttore Terranova, ma anche nove anni prima delle stragi Falcone e Borsellino a proposito del quale si parla finora di Domenico Belfiore come unico mandante dell’omicidio e non si conoscono neppure i nomi degli esecutori?
C’è da sperare che si facciano finalmente i passi avanti necessari per uscire dalla nebbia che avvolge ancora quella vicenda.
Oggi nell’anniversario drammatico dei trent’anni da quando è avvenuto l’assassinio del magistrato di Torino appare, da una parte, singolare e inspiegabile l’oblio che ha circondato nel capoluogo piemontese la vicenda e, dall’altra, poco credibile un delitto deciso soltanto da una cosca ‘ndranghetista,magari con la complicità dei mafiosi catanesi presenti a Torino di cui facevano parte sia Francesco Miano, che ha confessato per prima l’agguato al procuratore, sia altri mafiosi catanesi come Gonella e Cattafi.
Le contraddizioni più volte illuminate sulla magistratura torinese,i rapporti di Miano e di Cattafi con i servizi segreti mai approfonditi, i forti interessi legati alle associazioni mafiose come il riciclaggio del denaro dei Casinò fanno pensare a qualcosa di più complesso dell’ordine esclusivo di Belfiore. Ma sono necessarie a questo punto nuove indagini e prove concrete.
C’è da sperare che la richiesta dei figli del magistrato per un nuovo processo sia accolta e si arrivi finalmente a ricostruire in maniera più convincente quali furono le ragioni di quel delitto e del mistero che ancora si oppone a individuare individui e interessi che ne erano alla base.
È come se si toccasse ancora con mano che non è stato ancora superato, dopo tre decenni, l’ostacolo a raggiungere la verità che fin dall’inizio segnò l’agguato terribile di quella domenica nel centro storico di Torino.
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