MANGANO CI SPIEGA UNA CITTA INVISIBILE…DIVENUTA CAMERA DI COMPENSAZIONE AL RIBASSO DEI NOSTRI DIRITTI

Per chi è abituato ad apprezzarla, la prosa di Antonello Mangano non perde affatto in capacità narrativa, quando il tratto di cronaca giudiziaria la fende come una coltellata: quello squarcio diviene squarcio di luce, illustrazione di eventi con sintesi e, appunto, piena luce.
Il cronista si era numerose volte occupato dell’immigrazione clandestina in Italia, da una posizione indubbiamente coraggiosa e tristemente rara: non quella del “problema”, non quella delle “opportunità”, ma quella del “riscatto”. Per le migliaia di migranti, che si fermano in condizioni illegali o nelle stazioni di un Sud presidiato da oscure presenze o nelle opulenti fantasmagorie post-industriali del Nord-Est e del Nord-Ovest, Mangano chiariva la loro assoluta cardinalità nel sistema di vita concreto italiano, la pesantezza garantita da una legislazione visibilmente para-ricattatoria, nonché gli incunaboli a disposizione per spezzare le catene di un diritto di cittadinanza che copre, in pratica, il diritto allo sfruttamento sistematico e alla segregazione.
Ben venga ora questo suo appassionante “Zenobia. Dalla Salerno-Reggio Calabria ai cantieri del Nord. Il rapporto tra ‘ndrangheta e imprese” (Castelvecchi, 2013). Innanzitutto, un rinnovato plauso per il metodo: l’autostrada degli incidenti automobilistici, degli operai morti e degli abusi sulla cantieristica, è tema che ha dato vita a una propria eccezionale letteratura nell’ultimo decennio. Prima di “Gomorra”, esisteva già una mulattiera infingarda. Vergare parole nuove e contemporaneamente analitiche e lucide non era affatto facile, anche per il miglior cronista su piazza.
Secondo: l’incubo della Salerno-Reggio Calabria è solo il punto di partenza, per una passeggiata affatto rassicurante nei mille vicoli della “città invisibile”, dove la barra concettuale del testo è sempre fissata su due punti strategici: 1) il sistematico respingimento dell’idea delle “infiltrazioni” criminali nella grande impresa e nella pubblica amministrazione, quasi si trattasse di un contagio eventuale, occasionale e, proprio perciò, né tangibile né arginabile; 2) il punto di vista della manodopera e del lavoratore e della lavoratrice, in genere, così schiaffeggiato dalla propaganda politica, anche perché quasi sotto traccia rispetto alle tele lucrose del controllo degli appalti (o al chiacchiericcio sciatto e agli urli demonizzatori).
E qui facilmente si transita dal metodo al merito del percorso di Mangano: il controllo della (non avvenuta) realizzazione degli ammodernamenti alla A3 ha costituito un paradigma significativo nella trasposizione di questi meccanismi criminali dal Sud al Nord, dal regno delle “cattedrali nel deserto” fino all’ultima avanzata della “linea della palma”. Un modello che ha colonizzato esperienze di ogni tipo e che cerca accattivantemente di sistemarsi anche nel grembo fecondo della TAV, dell’EXPO, dei nuovi tronconi autostradali. Un modello che si regge da sé, con le sue caratteristiche tipiche più deleterie: i morti che si lascia appresso, in agguati consumati per presidiare la garanzia di controllo di ogni trattativa (con poteri imprenditoriali, comitati elettorali, procedure di tutti i tipi), in cantieri fatiscenti e direttamente violativi di regole amministrative e norme di legge, la scia del denaro, dell’inganno, della lentezza operativa, pur in condizioni qualitative e realizzative tra le peggiori, tra le più speculative alla prova dei fatti e le più “burocratiche” alla lettera dei contratti .
Piace particolarmente la prospettiva del Mangano: non solo perché riavvicina a buoni modelli di comprensione di una dimenticata e stringentissima attualità italiana (Revelli, Gallino, Rovelli, condivisibili o meno che siano le soluzioni proposte), ma soprattutto perché ci fa camminare a testa alta in un sistema inquinato, dove sono sempre più chiare le faglie da cui provengono acque sempre più torbide.

Domenico Bilotti

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