Prima della sospensione estiva, quando la stessa qualità dell’informazione sulla cronaca parlamentare scema, parallelamente allo spazio che occupa nelle pubblicazioni giornalistiche, con una nota del 7 Agosto, il vice-presidente del Senato, Vannino Chiti, aveva invitato a considerare l’eccessivo uso della fiducia che, sia pure munito d’una cospicua maggioranza parlamentare, il governo Monti stava facendo sugli ultimi provvedimenti. Pochi giorni prima, lo stesso Chiti aveva sollecitato a migliorare la prospettazione del dialogo sulla legge elettorale, dal momento che i tempi consentivano ancora margini ragionativi e modificativi importanti. Le due questioni poste dal senatore Chiti possono esser distinte, ma riflettere sull’evoluzione di entrambe consente di recuperare una trama di fondo, nel procedere delle due questioni.
L’uso della fiducia è stato molto contestato, soprattutto a partire dal 2001 (nella storia repubblicana, periodi di grave inflazione nella decretazione non erano mai mancati, ma il dibattito tendeva a concentrarsi sui contenuti della regolamentazione emergenziale e sui margini durativi della stessa). Il governo Berlusconi vi ricorse con una certa disinvoltura per tutti i cinque anni della legislatura, soprattutto quando alla fine si intuivano gli sfilacciamenti di una coalizione esausta, che aveva portato poco frutto, rispetto alle tante (talune, persino apprezzabili) promesse della campagna elettorale. Nel 2006, con la vittoria del centro-sinistra alle Politiche, il governo Prodi veniva costantemente messo sotto accusa per lo stesso motivo. In quel caso, tuttavia, i margini di scusabilità del ricorso all’istituto potevano esser ricompresi nell’esigenza di omogeneizzazione che impone attuare normativamente riforme importanti, pur disponendo di numeri molto risicati in una delle due Camere. L’atteggiamento della coalizione avversa, peraltro, poco propendeva per il dialogo proficuo, che è l’unico presupposto materiale per allentare il ricorso alla fiducia. Per mesi, una folta pattuglia di parlamentari del centro-destra, come alcuni ex esponenti di Alleanza Nazionale (forse non casualmente tutti quelli rimasti in area PdL, senza aver accettato la diversa e verosimilmente più approfondita tavola tematica finiana di Futuro e Libertà) e non pochi ex socialisti ricollocatisi in Forza Italia, si rifiutò di accettare la vittoria altrui, che pure era parsa infiacchita, più che per la campagna elettorale del Cavaliere Berlusconi, per la cervellotica legge elettorale con cui gli Italiani dovettero votare. Nel 2008 (e fino all’insediamento di Monti), la fiducia tornava a fare da collante in assenza di necessità numerica, ma per una più plausibile disomogeneità programmatica delle posizioni sui vari punti da votare: una maggioranza cospicua ricorreva piuttosto facilmente alla fiducia, perché si rivelava il solo modo di serrare un discorso dove mano a mano si perdevano i pezzi e quelli rimasti tendevano a voler marcare la differenza. Per il governo Monti come si giustifica un uso così frequente della fiducia, pur potendo contare, almeno sulla carta, sul sostegno di Pd, PdL e Terzo Polo? Un giudizio sul metodo, mai come in questo caso, contiene le premesse per un giudizio sul merito: il governo Monti ha investitura tecnica (riforme contabili e manutentive, recupero di strategia sul fronte della politica estera: questo doveva essere il minimum accordato), però esigenze di tipo squisitamente politico. Poter varare quanto vuole varare. In questo apparente paradosso, che rischia di trasformarsi in sicura contraddizione, c’è più di quanto appaia della sostanza, problematica, di un “governo tecnico” e del sacrificio, anche su temi percepiti come di “bandiera”, che richiede alle fasce elettorali cui corrispondono i partiti che lo appoggiano. Depotenziare la funzione parlamentare appare principalmente come dispositivo formale, per far veleggiare l’esecutivo al riparo dalla ambiguità prima ricordata. Ma Chiti, che da Ministro per i Rapporti col Parlamento ha materialmente e specificamente affrontato la questione, non può non ricordare -oltre che al governo, ad altri colleghi parlamentari- che la legge è provvedimento legislativo, appunto, di spettanza parlamentare; l’esecutivo, anche su questioni di rilievo apparentemente solo finanziario, deve saper misurarsi con proposte e limiti che gli formula l’assemblea.
Andando all’altra questione, quella sulla legge elettorale, l’invito sembra doppiamente saggio perché si leggono sempre più spesso dissertazioni incentrate sull’argomento dell’ “è troppo tardi”. Troppe obiezioni, in effetti, potrebbero esser formulate. Troppo tardi, innanzitutto, lo è diventato: se il discorso fosse stato affrontato nei tempi e nei modi che erano stati sollecitati, adesso si sarebbe, se non con una legge in mano, con buona parte del percorso compiuto. Dal punto di vista propagandistico, sulla legge elettorale vengono colpevolmente caricati tutti i mali del Paese: si pretenderebbe di far la legge elettorale, insieme a riforme costituzionali da far tremare i polsi (oltre a porsi al di fuori, magari, degli stessi canoni della rivedibilità costituzionale). Chiti avrebbe certamente avuto buoni argomenti da aggiungere ai “desiderata” di un nuovo provvedimento elettorale; da coordinatore nazionale di Primarie, avrebbe potuto re-immettere, nel calderone mediatico, una qualche formalizzazione giuridica dell’istituto, che in realtà dei benefici potrebbe avere. Avrebbe potuto ricordare le diverse proposte (sia consentito di dirlo: quasi integralmente emendative e migliorative della normativa vigente) giungenti dal suo partito. Invece, con senso di responsabilità, l’appello è stato: si torni a lavorare; le calende greche sono nemiche della buona legislazione. Si spera che l’uno o l’altro dei due appelli venga raccolto prima che anche questa legislatura giunga a conclusione, ma la svogliatezza di molte controparti in questo scorcio estivo aumenta le preoccupazioni e allontana dai problemi degli Italiani.
Domenico Bilotti