Dopo l’improvviso ritorno di fiamma per lo Statuto dei Lavoratori, cheera seguito ai due pacchetti di nuove disposizioni, varati dal governoMonti, la pubblicistica estiva regala, oggi, piuttosto fior di analisie dichiarazioni politiche sulla crisi economica, sulle elezioni ormaialle porte, sulle ricette vere e presunte che possano concludere ilgrave e lungo periodo di grossa stagnazione. La discussione sulladisciplina del lavoro, in Italia, meriterebbe, invece, minoreestemporaneità anche fuori dalla cerchia degli specialisti e oltre leoccasionali contingenze della cronaca parlamentare.Il dibattito sembra essersi inceppato all’inizio degli anni Settanta,tutto stretto come è tra favorevoli e contrari allo Statuto deiLavoratori. L’unica cosa che sembra cambiata è la posizione degliattori politici che guardano al problema: chi ieri era contro loStatuto, oggi si fa vanto di difenderlo nella pedissequa struttura eredazione letterale di sempre; chi ieri lo difendeva a oltranza,lodandone la capacità di riequilibrio complessivo nel sistema, loconsidera oggi un nemico, l’ennesima spia di una regolamentazioneburocratica, appesantita, inutile e improduttiva, suggerendonel’azzeramento totale per evitare la paralisi. Questi due fronti stannofacendo molti più danni di quanti ne faccia la stessa inadeguatezzaevolutiva dello Statuto o di quanti ne avrebbe potuti farel’accettazione di proposte riformatrici in senso totalmente liberistao, meglio, abolizionista.La tutela del lavoro e la tutela del lavoratore vengono invocate insincrono, ma rispondono ad esigenze diverse, anche perchédifficilmente una medesima norma può aver effetti incentivantirispetto alla domanda di prestazioni lavorative e, contemporaneamente,profili premiali rispetto a chi sia già prestatore di lavoro: lacontrapposizione tra le due istanze suona spesso fittizia, ma ècolossale dabbenaggine credere e chiedere che le due categorie diinteressi possano e debbano, per chissà quale intrinseca ragione,sempre e comunque viaggiare insieme. Ci sono periodi in cui ilavoratori subiscono regimi regolamentari pesantemente sottovalutati(e ancor meno, tutelati) e periodo in cui, al contrario, si èraggiunta una buona tutela del lavoratore, ma si stenta a creare lecondizioni determinative di nuova occupazione: alternativamente,Italia, Europa, Stati Uniti… e anche le economie in ascesa… hannoconosciuto entrambi gli epifenomeni: negarlo è irresponsabile.Parallelamente, la trasformazione del sistema produttivo, per quantomolte volte apertamente influenzata da chi ha avuto a cuore ditutelare soltanto gli oligopoli in cui era inserito, ha determinatouna espansione di forme contrattuali senza precedenti, non assistitadalla corrispondente diversificazione e implementazione deglistrumenti utili a prevenire ondate di disoccupazione, scarsa fluiditàdell’accesso alla formazione, e a determinare forme negozialiattivabili per limitare i periodi di mancata occupazione, favorendol’espansione del reddito, la cui base è comunque un criterio d’analisidelle situazioni complessive della forza lavoro.La considerazione di questi fattori, sovente ignorata da quelle forzepolitiche che pure occupano più spazio nel dibattito sui temi dellavoro (agitandolo, però, a un basso tasso di proposte concrete),forse riesce a dissipare più di qualche dubbio: riformare lo Statutoha un senso, se esso si adegua alle rinnovate difficoltà di nuovimilioni di lavoratori e non lavoratori che hanno problematiche esubiscono violazioni che il Legislatore del 1970 non poteva prenderein considerazione; tuttavia (proprio per questo?), la difesa delloStatuto ha un senso e solo se riesce a descrivere una nuovasistematica a vantaggio di chi è outsider, cioè letteralmente buttatoa mare dagli istituti della coesione sociale.
Domenico Bilotti