La verità  su Borsellino? Chiedetela allo Stato

di Marika Demaria

Il 19 luglio, ricorre il ventennale della strage di via D’Amelio. «Narcomafie» vuole ricordare la figura del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta – Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Emanuela Loi – attraverso le parole di un testimone d’eccezione: il fratello Salvatore Borsellino. L’articolo – a firma di Marika Demaria – sarà pubblicato sul numero di luglio/agosto del mensile.

Paolo Borsellino morì il 21 aprile 1992 a Lucca Sicula, nell’agrigentino. Quanto avete appena letto non è frutto di un refuso e nemmeno di un errore mnemonico. Vent’anni fa furono due i Paolo Borsellino vittime della mafia: il giudice ucciso insieme ai cinque agenti della scorta Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli il 19 luglio nella strage di via Mariano d’Amelio e un titolare di una ditta di calcestruzzi. Non solo. Giuseppe Borsellino, il padre di quest’ultimo, morì sotto il piombo della mafia il 17 dicembre dello stesso anno, perché aveva avuto il coraggio di denunciare alla magistratura mandanti ed esecutori dell’omicidio del figlio.
«Avevo sette anni quando uccisero mio zio e mio nonno. In Italia si parlava però sempre e solo di un Paolo Borsellino: il giudice. Non nego che provavo un senso di fastidio verso quella figura che di fatto oscurava quella dei miei parenti, anche loro uccisi in Sicilia nel 1992 perché non si erano piegati al volere della mafia che pretendeva una percentuale degli utili e che i titolari assumessero persone vicine agli ambienti della criminalità organizzata». Così Benny Calasanzio Borsellino racconta la propria vicenda famigliare, facendosi portavoce di una storia che prima era raccontata solo nelle aule di tribunale, quando sua madre e i suoi zii si costituivano parte civile ai processi per scoprire la verità sugli omicidi dei loro cari. Nomi che si sovrappongono, date che si rincorrono, destini che si incrociano e si intrecciano l’uno con l’altro. Come le vite del giovane giornalista trapiantato a Verona e di Salvatore Borsellino, fratello del giudice. «A farci conoscere suo malgrado è stato Clemente Mastella: la sua affermazione che i proventi di una querela versus Beppe Grillo sarebbero stati destinati ai famigliari delle vittime di mafia, anzi testualmente alle vittime di mafia, mi fece imbestialire. Capii che si trattava di un grave affronto e che non potevo stare zitto, ma ero anche consapevole che solo la mia voce sarebbe rimasta inascoltata. Così decisi di contattare Salvatore Borsellino, che avevo visto ospite nella trasmissione di Michele Santoro e che mi parve subito molto battagliero. Ne è nata un’amicizia tanto insolita quanto forte, e un libro che io considero un regalo nei miei confronti, perché mi ha aiutato finalmente ad amare la figura del giudice Borsellino».
Il libro è “Fino all’ultimo giorno della mia vita” pubblicato a giugno dalla casa editrice Aliberti. «Non volevo scriverlo – ammette Salvatore Borsellino – perché avevo come l’impressione di mettere la parola “fine” alla vicenda di mio fratello, quando invece è aperta più di prima». È un fiume in piena l’ingegnere informatico che con le sue espressioni, il suo accento, il suo volto, ricorda inevitabilmente Paolo Borsellino, con cui «sono andato molto d’accordo fino a quando non è mancato nostro padre. Paolo aveva 22 anni e si arrogò un’autorità e un’autorevolezza che non gli spettavano e che non avevamo riconosciuto nemmeno a nostro padre, che aveva occhi solo per mia sorella Rita (la più piccola di casa dopo Adele, la primogenita recentemente scomparsa, Paolo e Salvatore, n.d.a.). Nonostante il nostro andamento scolastico fosse decisamente positivo, non volevo vivere all’ombra di mio fratello anche all’università e così a malincuore scelsi una facoltà diversa da Giurisprudenza e andai via dalla Sicilia. Una scelta che Paolo non mi perdonò: perché anche lui come me si sentiva oppresso dalla nostra terra, ma decise di rimanere per cambiarla, per migliorarla. Più volte mi chiese di “ritornare a casa” ma io ormai mi ero creato una posizione professionale al Nord. Gli ho dato ascolto solo adesso, acquistando una casa a Mondello: è il mio modo per stargli vicino».
Salvatore Borsellino in realtà da anni gira l’Italia per tenere vivo il ricordo di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone «che di fatto considero il vero fratello di Paolo: avevano gli stessi ideali, lottavano per raggiungere lo stesso obiettivo, anche se è una leggenda metropolitana il fatto che siano cresciuti insieme tirando i calci allo stesso pallone nel cortile». Con pathos urla la propria rabbia: «Per anni ho visto in Nicola Mancino l’anello della trattativa Stato-mafia che portò all’omicidio di Paolo Borsellino che per loro costituiva un ostacolo, ma adesso ho capito che ci sono pezzi deviati dello Stato che sono ancora più in alto rispetto a Mancino. La verità non emergerà mai, anzi ai politici interessa insabbiarla. È per questo motivo che non ammetto la loro presenza alle commemorazioni del 19 luglio, a meno che non siano in grado di sopportare le eventuali e giustificate contestazioni al loro indirizzo. Cosa vengono a fare? Vengono a controllare se Paolo è ancora vivo?». E sferra l’affondo: «Come possiamo credere in uno Stato che vuole cancellare il concorso esterno in associazione mafiosa? Lo sanno tutti che le mafie proliferano grazie a professionisti, colletti bianchi, politici che con loro stringono patti e alleanze per i propri tornaconti. Annullare quel reato significa alimentare ulteriormente le mafie e cancellare per sempre la memoria di Falcone e Borsellino che hanno ideato quel concetto e che anche a causa di questo sono stati uccisi».
Salvatore Borsellino non cela il proprio livore nemmeno nei confronti di Giuseppe Ayala, collega di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Il magistrato fu il primo a sopraggiungere in via d’Amelio dopo la deflagrazione. Nel corso degli anni lui e il carabiniere Arcangioli hanno raccontato tutto e il contrario di tutto, riferendosi soprattutto alla sparizione dell’agenda rossa sulla quale mio fratello per quasi tre mesi aveva annotato tutti gli appuntamenti. E mio fratello era infastidito dal fatto che lui, dopo il 23 maggio 1992, si ergesse come unico migliore amico di Giovanni Falcone».
Da quella data alla strage di via d’Amelio trascorsero 57 giorni, «durante i quali mio fratello continuava a ripetere che non aveva tempo, che doveva fare in fretta. Lui ed io ci eravamo visti l’ultima volta per le festività natalizie del ’91. Quel 19 luglio avevo sentito per telefono mia mamma, sapevo che Paolo sarebbe passato a prenderla per accompagnarla dal cardiologo. È stata mia moglie ad urlare, avendolo appreso dalla televisione, che c’era stato un attentato: quella notizia la aspettavamo da 57 giorni».
Le immagini di via D’Amelio devastata dall’esplosione, l’intervento dei vigili del fuoco, le sirene di sottofondo, i primi soccorsi fanno parte della memoria collettiva. Poi ci sono i ricordi personali, «anche se alcuni li custodisco gelosamente e non li renderò mai noti. Ma quel giorno, quando sono arrivato…». Salvatore Borsellino ha la voce incrinata, rivive e fa rivivere quei momenti strazianti. «Il corpo di Paolo era ricoperto di fuliggine, sua figlia Lucia con un fazzoletto gli ripulì il volto, scoprendo un’espressione quasi sorridente sotto i baffi del padre. L’esplosione aveva fatto saltare le braccia e le gambe di mio fratello, brandelli di carne avevano addirittura raggiunto il quinto piano: lì si riconoscevano i riccioli biondi di Emanuela Loi. Lei era stata la prima donna affidata al servizio scorta a cadere in servizio: era sarda, lo Stato si occupò del trasporto del feretro per i funerali ma poi presentò il conto ai famigliari. Come anni prima chiese a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di pagare le spese relative al soggiorno obbligato all’Asinara». L’ingegnere di Arese racconta di aver vegliato suo fratello «per tre giorni e per tre notti e che un custode gli rivelò la macabra verità, e cioè che le bare contenevano solo pezzi di ciò che erano stati i corpi del giudice e dei cinque ragazzi della scorta. Per anni andai a raccontare il mio dolore ai giovani insieme a mia sorella Rita, l’avevamo promesso a nostra madre. Ma quando lei morì, nel 1997, tutto si fermò. Un pellegrinaggio a Santiago, iniziato proprio il 19 luglio ma del 2006, mi fece riavvicinare a Paolo, facendomi capire che fino all’ultimo mio respiro dovrò continuare a gridare il mio dolore, a chiedere giustizia e verità per lui e per quei cinque meravigliosi ragazzi che sono morti nel tentativo di salvargli la vita»

http://www.narcomafie.it/2012/07/19/la-verita-su-borsellino-chiedetela-allo-stato/

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