Borsellino ucciso perché sapeva della trattativa tra Stato e mafia

«Sia nel luglio del 1992, sia nell’anno 1993, la strategia di Cosa nostra è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l’esecuzione di plurime stragi che hanno trasformato la trattativa in un vero e proprio ricatto alle istituzioni». La “trattiva” di cui scrivono i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che conclude quasi quattro anni di indagini nate dalle rilevazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, è quella tra Stato e mafia. Un ricatto bello e buono che Cosa nostra ha rivolto alle istituzioni democratiche e che ha avuto qualche risultato considerevole “se si considera che l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (il carcere duro per i mafiosi, ndr ) è stato di fatto depotenziato». I detenuti sottoposti al regime restrittivo si ridussero, in poco più di un anno, di circa due terzi. Intanto a Palermo il giudice Giovanni Falcone esplose in un attentato scenografico, potente, che si portò via un pezzo di autostrada e un pezzo di Stato. L’altro pezzo saltò il 19 luglio 1992 uccidendo Paolo Borsellino. Poi, su quell’Italia in frantumi, si è costruita una nuova stagione politica. Chi rompe paga e i cocci sono i suoi.

Dall’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta sulla bomba che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, emerge in maniera nitida come gli attentati mafiosi abbiano accompagnato – parallelamente all’inchiesta milanese Mani Pulite – il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra», scrivono ancora i pubblici ministeri. Una strage realizzata in tempi stretti, con una certa “premura” secondo le parole di Spatuzza. Premura, che vuol dire “attenzione” ma anche “fretta”. E davvero bisognava agire con “premura” in quel volgere della Storia italiana poiché Borsellino era diventato un impiccio troppo grande ora che le cose sembravano lì a portata di mano: aveva saputo della trattativa tra Stato e mafia.

Borsellino era infatti venuto a sapere, il 28 giugno 1992, dalla collega Liliana Ferraro, dei contatti tra i carabinieri del Ros, guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Contatti finalizzati alla cattura dei latitanti, almeno secondo gli investigatori dell’Arma, che però Cosa nostra intese diversamente se è vero quanto scrivono i pm nisseni: «Nella ricostruzione del generale Mori non convince l’ostinata negazione di una trattativa che invece è nelle stesse sue parole descrittive degli incontri con Ciancimino. Per Cosa nostra era certamente una trattativa». Per i magistrati, il colonnello Mori, il suo superiore generale Subranni e il capitano De Donno che l’accompagnava negli incontri con l’ex sindaco «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992. Questa trattativa si svolse a più riprese e iniziò prima della strage di via D’Amelio».

Altri soggetti politici tra cui l’allora ministro degli Interni, Nicola Mancino, che sulla faccenda continua ad avere amnesia. In particolare non ricorda la visita che gli fece Borsellino il primo luglio. Citando ancora le parole dei magistrati: “appare illogico e non verosimile… V’è da chiedersi se il senatore Mancino sia vittima di una grave amnesia, ovvero sia stato indotto a negare un banale scambio di convenevoli per il timore di essere coinvolto, a suo avviso ingiustamente, nelle indagini. Non si può tuttavia negare che residua la possibilità teorica che egli possa aver mentito “perché ha qualcosa da nascondere”».

Come ricorda Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera nell’ottobre del 1993 l’allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso, decise di non rinnovare oltre 300 decreti di «carcere duro».

Pochi mesi dopo si registrò il crollo della Prima Repubblica e la nascita di un nuovo corso politico promosso proprio dalla morte di Borsellino, l’ultimo ostacolo al lieto fine della trattativa tra Stato e mafia o, meglio, tra uomini infedeli allo Stato e Cosa nostra. Chi allo Stato restò fedele, come Borsellino, venne ucciso ed è difficile non immaginare una correità (almeno morale) da parte degli uomini delle istituzioni. Uomini che si prestarono al ricatto.

Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia, dichiara in conferenza stampa: «La strategia della tensione nel nostro paese non è mai finita». Lo dice a Caltanissetta durante un incontro cui giornalisti in cui si spiega il senso dei quattro ordini di custodia cautelare chiesti dalla procura nissena, guidata da Sergio Lari, nei confronti di mafiosi coinvolti nella strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Per la cronaca, si tratta di quattro ordini di custodia cautelare emessi nei confronti del capomafia pluriergastolano Salvino Madonia (accusato di aver partecipato nel dicembre 1991 alla riunione in cui si decise l’avvio della strategia stragista), dei boss Vittorio Tutino e Salvatore Vitale (il primo rubò con Gaspare Spatuzza, oggi pentito chiave in questa storia, la 126 per la strage; il secondo abitava nel palazzo della madre di Borsellino, in via D’Amelio, e avrebbe fatto da talpa agli stragisti). Un quarto provvedimento riguarda il pentito Calogero Pulci che era l’unico in libertà: è accusato di calunnia aggravata, perché con le sue dichiarazioni avrebbe finito per fare da riscontro al falso pentito Vincenzo Scarantino.

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