RUMORI DALL’AMERICA E MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA

I timori per la crisi economica in atto alterano la percezione comune circa il funzionamento delle proprie stesse istituzioni. Questa amara constatazione giunge piuttosto chiaramente dalla campagna elettorale americana e dalle Primarie del Partito Repubblicano: il partito che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila aveva provato a dotarsi di un nuovo statuto metodologico, continuando e anzi implementando la vocazione anti-keynesiana, la prospettiva liberista e la modernizzazione, anche in senso geo-politico, è adesso schiacciato sul corteggiamento di alcune delle sue componenti meno riformatrici. Il che è perfettamente legittimo: le crisi favoriscono le torsioni identitarie. Non è, però, produttivo: perché questa rincorsa a chi interpreta meglio se stesso non sta riuscendo a presentare all’elettorato statunitense un candidato più forte del Presidente uscente; il quale, pur criticato a Sinistra dall’ala liberal e pur contrastato da chi vede nei provvedimenti più recenti una flessione verso forme di assistenzialismo distanti dalla migliore tradizione politologica americana, continua a navigare a vista, sapendo che, se non farà errori esiziali nel mantenimento del consenso, potrà riaffermarsi con una certa tranquillità, del tutto imprevista dopo le batoste di mid-term.
Viene dagli Stati Uniti una qualche lezione istruttiva per il dibattito ius-politico in Italia, soprattutto in termini di riforma del mercato del lavoro? Il primo appunto è quello più ovvio: se per un governo con un forte legame, rispetto alla maggioranza che lo sostiene, la chimera è rappresentata dalle riforme istituzionali (quelle cioè che gli elettori della base ritengono erroneamente prescindibili), per un governo tecnico, dotato di una maggioranza cospicua, ma in concreto tiepida, il passaggio più duro è proprio dato dall’incisività sui meccanismi laburistici, dal momento che nessuno vorrà esser riconosciuto come il fautore del disegno, “tecnico”, di ridimensionamento delle aspettative, di ulteriore flessibilizzazione in entrata e in uscita del mercato, di puntuale riforma giuridica di norme ritenute simboliche testimonianze di più complessi e articolati schieramenti di natura ideologica.
I partiti politici che votano i singoli provvedimenti alle Camere giocano un po’ troppo con l’attendismo: vogliono vedere sino a che punto arriveranno le proposte governative, piuttosto che intervenire, decisamente e democraticamente, a una loro proficua costruzione e redazione.
Questo atteggiamento, magari dettato dalle contingenze, è, in realtà, ingiustificabile negli esiti; l’intervento dinamico richiesto, ad esempio, alle parti sociali, è di altra natura e va nel senso di non inibire percorsi di riforma che dovranno (pena la crescita della disoccupazione e un’ulteriore spirale negativa sui redditi): a)favorire l’emersione del lavoro nero, soprattutto nella manodopera: affinché si qualifichi, si doti di proprie garanzie, non subordini l’esercizio di libertà economiche al non godere di certi diritti politici; b)incrinare la forbice tra insiders e outsiders, tra una fascia di protetti e una fascia di esclusi da ogni protezione (tra l’altro: la seconda aumenta ogni giorno, la prima si riduce e pure, sempre più spesso, anche col relativo sistema di tutele lamenta le conseguenze di un impoverimento davvero patente).
Potrà anche discutersi se ciò passerà da una sistematica liberalizzazione del sistema nel suo insieme, o magari a mezzo di una rinvigorita spesa pubblica (che però non parrebbe avere né basi su cui fondarsi, né spazi di copertura per essere affrontata), ma i due temi sono, in tutta evidenza, ineludibili.

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