Si legge ancora con gran piacere, senza perder quasi in niente della sua attualità scientifica, Massimo Teodori in “Storia dei Laici nell’Italia clericale e comunista” (Marsilio, 2008), nonostante il medesimo autore abbia scritto nuove, valide, pagine su problematiche affini in tempi a noi ancor più vicini. Una precisazione (o: un pacchetto di più precisazioni) sul titolo: la storia dei “laici” riguarda l’intellettualità che non si era riconosciuta nell’art. 7 della Costituzione, o per diversità irriducibile con l’ideologia comunista della pacificazione religiosa, o per omologa insofferenza nei confronti dell’anticomunismo conservatore che, proprio in nome dell’anticomunismo, abiurava al modello liberal-democratico; inoltre, l’Italia “clericale” è quella, formalmente e sostanzialmente, vincitrice di un cinquantennio di governi a impronta marcatamente democristiana, poco “manomessa” sia dalle aperture al Partito Socialista Italiano (fautore di un non del tutto condivisibile “nuovo” Concordato) sia dagli eventuali allargamenti verso repubblicani, liberali e social-democratici; l’Italia “comunista” è quella della diffusa alta amministrazione, cultura e politica locale assai vicina, a torto o a ragione, al Partito Comunista Italiano, mai ideologicamente smarcatosi da una sua vicinanza “preferenziale” al blocco socialista dell’Unione Sovietica, pur mantenendosi agenzia rappresentativa di primo piano nel Paese. In qualche modo, un invito a non confondersi: clericale è il dominio (la forma distorta di un suffragio popolare), ma comunista rischiò di dover sembrare la sua ancella. Massimo Teodori ricostruisce le cose col piglio dello storico, convinto della certosina bontà del suo lavoro: lo schieramento che oppose e magari oppone ancora oggi alla politica filo-vaticana la compiuta speranza di un itinerario riformatore è stato ed è al di fuori di queste due polarizzazioni estreme, quella dell’adesione obbediente e del consenso calcolatore. Oltretutto, il lavoro diventa il presupposto più sincero per riportare alla memoria una serie di autori, di rara levatura, che la propaganda ufficiale rischiava di far dimenticare: e passi per Lelio Basso, sulla cui titanica consistenza pochi dubbi sorsero tra gli stessi contemporanei (dubbi pochi e comunque disturbanti), ma Teodori può così rievocare i filoni ereticali e perduti della prassi politica post-bellica, come i trotzkisti mai accomodatisi né sulle braccia dello stalinismo, né sulle ginocchia della revisione, i liberali di Destra mai convinti dal regime e nemmeno mai accattivati dagli ammiccamenti del Legislatore Costituente, i social-democratici e i liberal-socialisti terzaforzisti che volevano far convogliare il loro piccolo, esiguo, bacino di consensi, né in mano agli ispiratori di un neo-confessionalismo aggiornato al liberismo economico né tra le spira, se possibile ancor più mefistofeliche, degli anticapitalismi dottrinari e settari. Cosa dice all’Italia di oggi “Storia dei Laici nell’Italia clericale e comunista”? Innanzitutto, chiarisce la matrice storica di certi orientamenti vigenti, compresi l’ostracismo, ormai talvolta autoalimentato, nei confronti del Partito Radicale, l’inedito sforzo trasversale dei Comitati per il referendum sulla fecondazione medicalmente assistita, la perdurante fatica nell’immaginare un piano di modificazioni economiche scevro da tornaconti correntizi. E, soprattutto, getta le basi per la riscoperta di un’intellettualità di nicchia che, certo, Teodori mitizza, archetipizza e idealizza, ma che aveva elaborato le ricette di una modernizzazione dove finalmente benessere e sviluppo non facessero a pugni dalla mattina alla sera. Uno scritto prezioso, insomma, che divide quasi sempre per “bianchi” e “neri”, ma la cui nettezza, più che mortificare, spinge a voler alzare l’asticella del dibattito in corso. Davvero non da poco, per una voce sul tema orgogliosamente partigiana.
Domenico Bilotti