Tra le paludi del Texas

di Marta De Luca

E’ in uscita in questi giorni nelle sale cinematografiche ‘Texas killing fileds’, presentato come ultimo film in concorso al recente festival del cinema di Venezia. Sicuramente, un’opera di ‘genere’, come si dice in questi casi, cioè dedicato a un pubblico discendente dal ‘giallo hitchcockiano’ che, ormai, ha attraversato gli inquietanti anni ’80 di ‘Manhunter’ e di ‘Vivere e morire a Los Angeles’ per poi ritrovarsi immerso nella deriva degli omicidi seriali dei successivi anni ’90, dominati dal dottor Hannibal Lecter de ‘Il silenzio degli innocenti’. La pellicola sta ricevendo dalla critica recensioni e giudizi diversi, alle volte opposti tra loro. L’esperimento di una storia territorialmente delimitata non è affatto nuovo, anzi sembra volersi richiamare alle origini stesse del thrilling, mentre la sceneggiatura mostra talvolta qualche lacuna. In effetti, lo sceneggiatore e la regista si sono voluti ispirare ai numerosi casi di cronaca nera verificatisi tra le paludi texane, nel tentativo di ricostruire l’inquietante ambientazione che fa da sfondo alle vicende del noto ‘Non aprite quella porta’, di Tobe Hopper. La location, dunque, è pienamente immersa nel proprio ‘genere’. E la regia ne ha approfittato per farsi aiutare dagli aspetti territoriali più comuni degli Stati Uniti del sud. Al centro di questo sfondo viene posta l’ossessione dei protagonisti, due detective della polizia, che scavano all’interno di un mistero coinvolgente il quale, a sua volta, si mescola con altri casi molto complessi. Queste ‘contaminazioni’, tuttavia, diventano il vero segno caratteristico del film, ciò che lo rende apprezzabile, interessante, non banale, dando l’impressione di una buona potenzialità della regista nel riuscire a miscelare al meglio gli aspetti privati dei suoi personaggi con le esigenze di ritmo del film preso nel suo complesso. In un’opera prima, infatti, può anche capitare di non riuscire a sviluppare sempre e completamente i diversi ‘spunti’ che una sceneggiatura può offrire, poiché riuscire a chiudere definitivamente il ‘cerchio’ di una vicenda può diventare un peso schiacciante, che genera ‘tagli’ ed esclusioni che, invece, potrebbero ancor più completare il quadro generale di una storia. In ogni caso, emotivamente un risultato, alla fine, risulta pienamente raggiunto: la scelta del casting appare gestita ‘felicemente’, la storia risulta appassionante e la regia si è ben guardata dal lasciarsi prendere la mano dagli aspetti più brutali, dimostrando ‘correttezza’ nel non voler indugiare sugli effetti speciali e su quegli aspetti di eccessiva spettacolarizzazione che spesso rischiano di rendere stucchevoli molte trame.(Laici.it)

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