LA SLAVINA DEGLI ANNI NOVANTA IN UN LIBRO MOLTO RECENTE

“Oplà. Cristalli di parole l’estrema vergogna e il modo” (Città del Sole, 2011) è un libro, tra gli altri meriti, stilisticamente molto interessante. L’Autore, Nicola Fiorita, lo concepisce come una narrazione corale, dove le voci s’alternano in una deformazione frequente dell’agorà greca, ma il fulcro del testo è una vicenda giudiziaria concreta: negli anni Novanta, il padre subisce una grave accusa, in un procedimento contro le cosche della Piana e le contaminazioni e propaggini di quelle consorterie criminali nella vita politica e amministrativa calabrese. Il periodo in cui inizia questa immane traversia è tra quelli più torbidi della storia repubblicana, nonostante su di esso fioriscano letture, in qualche modo, di segno opposto: i primi anni Novanta, quando la spoliazione di una classe dirigente, pur gravemente afflitta da problemi e incongruenze interne, si ritiene debba svolgersi sul grande palcoscenico di un processo penale. La citazione di De André, che fa da ossatura al titolo del libro, suggerisce l’esistenza di più punti di fuga, di metodi differenti e sensibilità contraddittorie per guardare alla realtà. Due fili conduttori si inseguono nel corso del testo. In primis, la paradossale considerazione che quel drammatico caso giudiziario giunge davvero a buon esito. A conclusione dell’iter processuale, gli indagati di un tempo, e poi imputati, vedono riconosciuta conformemente in più gradi la propria innocenza. Proprio per tali ragioni, si evidenzia, almeno parzialmente, l’idea di un cittadino ineluttabilmente turbato dall’attività giudiziaria; anche il pieno riconoscimento della verità soddisfa un’esigenza processuale, ma non agisce retroattivamente sulle relazioni umane che questa esigenza ha incrinato, molestato, allentato e complicato. Ci si aspetta una verità puntuale, afferrabile in un momento, ma l’attività durativa che conduce al suo accertamento può avere delle chiare distorsioni applicative. Il secondo tratto unificante del testo, in fondo, si lega a questo, nel suo svolgimento cronologico e spaziale: il tema della soggettivizzazione della memoria. Il figlio del malcapitato accusato conserva integralmente i frammenti più truci e grigi insieme dell’episodio; nondimeno, vecchi conoscenti dello sventurato protagonista lasciano sfumare le pagine più scure della vicenda, magari consapevoli di non aver fatto abbastanza per evitare la messa in moto di un procedimento similare. Ciascun personaggio al termine della vicenda è in un punto diverso rispetto a quello in cui è partito. L’accusa infondata può fittiziamente ritenersi tamquam non esset: ma nelle more di questo raggiungimento le persone reagiscono, cambiano, si modificano, persino crescono. Eppure, alla fine della corsa, non c’è solo disillusione nelle parole di Fiorita, perché il germe di una regione trasparente e liberata o ci si mette a cercarlo nella “torba” (come par suggerire, a margine, l’Autore) di quel che è stato e di quelli che ne sono stati travolti o sarà difficile trovarlo in qualunque altro posto.
Domenico Bilotti

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