Le lotte in Inghilterra. Tra violenza e disagio.

Leggere delle agitazioni che hanno coinvolto (e, in misura minore, stanno coinvolgendo) alcune delle principali città inglesi reca con sé un effetto di già visto, di prevedibilità spocchiosamente ignorata. Il riferimento più ovvio, da “sinistra”, è quello alle rivolte dei banlieuesards francesi, ma il paragone regge poco, per la composizione etnico-sociale delle agitazioni e per lo sbocco politico che esse possono rinvenire, se mai, ovviamente, saranno in grado di farlo. L'elemento affine potrebbe, all'opposto, giocarsi sul terreno dell'insofferenza per le prevaricazioni poliziesche che, in talune fasi contingenti, da prassi abusiva, più o meno associata al ruolo e al contesto, divengono detonatori di aggressioni trans-generazionali e metaclassiste. L'Inghilterra sta chiudendo i conti, in gran fretta, col “blairismo”: quella stagione politica, non tutta da riscrivere, aveva il proprio fulcro in una politica di liberalizzazioni progressive, di marginalizzazione dell'impatto sindacale (più riuscita quando condotta da partiti social-democratici), di riduzione della spesa sociale corrente e dei suoi margini di implementazione e diversificazione future.

In questo senso, Cameron è nella linea del suo predecessore, pur venendo da un'esperienza diversa, un conservatorismo filopatriottico nei contenuti e aggressivo e accattivante nelle forme. Prima ha proposto una riforma dell'università che ha dimezzato il consenso elettorale dei Lib-Dem, alleati di Cameron, nella popolazione studentesca, dove essi erano tradizionalmente forti; quella riforma, prevedendo meccanismi di tassazione prima sconosciuti al sistema anglosassose, ha in buona sostanza mescolato alla meritocrazia britannica (sistema funzionale, per quanto potenzialmente omologante, o: proprio per questo!) una componente censitaria ulteriore a quella che già discriminava istruzione pubblica e istruzione privata, sul modello americano.
Poi Cameron ha dichiarato la morte del multiculturalismo, seguito da molti autorevoli colleghi europei. In itinere, é aumentata la stretta sul consumo di droghe, che non ne è uscito diminuito; vandalismi e saccheggi sono divenuti, come è sempre stato in simili frangenti, una valvola di sfogo, a metà strada tra abbrutimento e rivendicazione. Ovviamente, la conflittualità anglosassone era già venuta alla luce sul fronte della politica estera, sublimando, ancora una volta, in Capitale: la Marcia per la Pace, contro l'assalto all'Iraq, da un lato; il silenzioso cordoglio di massa per gli attacchi terroristici. L'interrogativo è stato spesso banalizzato: meglio chi contesta il governo o chi, piegato dal dolore, invoca vendetta? Un'intera generazione (quella degli anni Novanta) aveva goduto di una crescita effimera, anche in forza di una progressiva diversificazione degli stili di vita, rispetto al paradigma tradizionale. Quella attuale, invece, é nuovamente unificata da un indebolimento complessivo delle proprie prospettive: per i migranti si restringono gli spazi delle politiche per l'integrazione e si radicalizzano profili d'appartenenza che, in un circolo vizioso, determinano un clima d'ancor maggiore sospetto e astio; per i giovani cittadini inglesi, nondimeno, le promesse di permanente specializzazione e crescita del settore terziario sono ai minimi storici, inducendo, perciò, nuove frustrazioni e perplessità. Una mappa di linguaggi che non aliena i facinorosi dalla crisi inglese, ma li rende, a un livello meno superficiale delle apparenze, la voce più sconveniente e altisonante di un malessere reale, incattivito ed annebbiato.

Domenico Bilotti

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