Il 17 marzo abbiamo festeggiato i centocinquanta anni dell’unità d’Italia. Una bella festa, specie per quanti hanno tentato di studiare e riflettere su un periodo storico spesso trascurato. Passata la festa, gabbato lo santo: cosa fare per non ingannare il Santo? Innanzitutto, hanno destato qualche ilarità gli iper-critici di professione, quelli di entrambe le cordate: quelli che hanno vaticinato il futuro imperioso di un Nord trionfante, finalmente libero dal giogo che si caricò addosso un secolo e mezzo fa; quelli che hanno speso fiumi di inchiostro sulla conquista sabauda del Sud… come se la Corona avesse prodotto la miseria e la repressione, che già esistevano, come se non avessero avuto ideali libertari, romantici e repubblicani anche migliaia di meridionali. Il ragionamento e l’analisi storica vanno bene se ci documentano di un divide enorme tra Nord e Sud, che il nocciolo del potere piemontese in qualche modo seppe girare a proprio vantaggio. Vanno bene se ci spiegano come in gran parte del Settentrione vi fossero circoli antiunitari, filoaustriaci e, comunque, opposti a quella vicenda di repubblica laico-federale i cui antecedenti furono gli sfortunati episodi di Roma e Napoli. Ma poi forzare le carte (e le cose) non giova a nessuno: il Risorgimento non diventerà il nuovo dogma dello storiografia e neanche letture così sciatte riusciranno a farlo diventare tale. Non ce la farà neanche il patriottismo barocco, simil-statunitense, che abbraccia idealmente e materialmente i simboli, i tricolori, le bandiere, gli stemmi: l’identità si fortifica e dispiega grazie a riconoscimenti collettivi, ma il rapporto è pur sempre biunivoco e, senza l’una, gli altri han poco senso e viceversa. Né han ragione quelli che nella parabola dello Stato liberale vedono un insegnamento ancora oggi attuale: non è così. Quello Stato non si poneva affatto il tema della disparità di genere, che coltivava, privatamente e in pubblico, la vessazione contro le donne; era uno Stato che non creava reti di cooperazione sociale, se non per tentativi, spesso poco organici e slegati, come la legge Crispi. Era uno Stato in cui cresceva la propaganda rozza, il militarismo. Croce sbaglia a dire che il Fascismo fu completo snaturamento di quelle istituzioni giuridiche: al contrario, in molti aspetti (legislazione penale, politica ecclesiale, minoranze etniche, accentramento produttivo) ne fu il draconiano compimento.
Il Regno del 1861 non è né il parente sepolto dell’Italia del 2011, né il passato glorioso che si oppone al presente misero: è il passaggio formale dove si coagulano tensioni ideali molto forti, ma dove anche problemi, speculazioni e bagni di sangue sono molto forti. Dove si reprime il dissenso e dove si unisce chi ancora non vorrebbe. Ma dove si celebra un bene sacrosanto: la libertà dalla prevaricazione autoritativa e straniera. Non servono né più eroi né più peccatori di quanti già non ne siano in giro.
Domenico Bilotti