di Goffredo Palmerini
CHIETI – Chissà cosa sarà passato per la mente a Michele Castagna, in quel lontano settembre del 1934, quando il suo bidente, che affondava nel campo a preparare il maggese per piantare la sua vigna nella piana tra Capestrano e Ofena, nei pressi delle sorgenti del Tirino, colpì qualcosa di molto duro. S’incuriosì, tanto da scostare con cura la terra fino a scoprire un’enorme statua di pietra. Comprensibile la sua meraviglia di fronte all’imponenza di quella singolare scultura. Riprese il lavoro e più avanti, di nuovo, le punte del suo utensile incontrarono un’altra grossa pietra, uno strano disco circolare e, accanto, un corpo lapideo raffigurante un torso femminile. Quel contadino mai avrebbe immaginato d’essere protagonista d’uno dei più importanti rinvenimenti archeologici per la conoscenza delle genti italiche. Del fatto si sparse in paese la voce e quei reperti, dapprima esposti nella piazza di Capestrano, vennero custoditi dal Castagna nella sua abitazione fin quando la Soprintendenza alle Antichità di Roma, interessata dalla consorella dell’Aquila, non li trasportò al Museo Nazionale romano. Fu avviata poco dopo sul luogo una campagna di scavi, diretta dall’archeologo Roberto Moretti, che portò alla luce una necropoli, con alcune tombe e corredi funerari risalenti al VII-VI secolo a.C., non lontana dall’antico insediamento vestino di Aufinum. Il più recente programma di scavi, nei primi anni duemila, ha portato alla luce un centinaio di tombe e oltre cinquecento reperti archeologici. Il Guerriero di Capestrano – questo il nome dato a quella stupenda scultura – è diventato per eccellenza il simbolo dell’Abruzzo. E’ una delle opere più rilevanti, se non la più importante – a parere del grande archeologo e storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli (Siena, 1900 – Roma, 1975) – dell’Italia centrale pre-romana.
Chi ammira il Guerriero nella sua maestosità, con i suoi 2 metri e 9 centimetri d’altezza e l’ampio elmo circolare, non può più dimenticarlo. Imponente e altero, non finisce di stupire per la sua regalità, portandosi dietro anche un’aura di mistero. Rimasto a lungo senza nome, è stato il Soprintendente archeologico di Roma, Adriano La Regina, a decrittare l’iscrizione in lingua osco-picena incisa sulla colonna sinistra della scultura, scoprendo il nome del personaggio, il Re Nevio Pompuledio, e quella dell’artista, tale Aninis, autore dell’opera che passa tra i primi grandi ritratti della storia. Per l’originalità e la bellezza delle forme il Guerriero di Capestrano è considerato il reperto archeologico più rappresentativo d’Abruzzo, e non solo. Alto, il curioso copricapo piatto sormontato da un cimiero, il Guerriero porta una maschera e ha le braccia ripiegate sul ventre, secondo un rituale che si ritrova spesso nei corredi tombali d’epoca italica. Sul petto e sulla schiena sono visibili due dischi retti da corregge a protezione del cuore. Un altro riparo, in cuoio o in lamina metallica, sorretto da un cinturone, protegge il ventre. Le gambe recano degli schinieri e i piedi calzano dei sandali. Appesi davanti al petto, il Guerriero porta una spada, con elsa e fodero decorati con figure umane e animali, e un pugnale. La destra regge forse un'insegna di comando o una piccola ascia. Gli ornamenti sono costituiti da una collana rigida con pendaglio e da bracciali sugli avambracci.
La statua, su piedistallo, è sorretta da due pilastrini, sui quali sono incise due lance: uno di essi reca l’iscrizione “MA KUPRI KORMA OPSUT ANANIS RAKI NEVII” il cui significato, secondo Adriano La Regina, è «Me bell’immagine fece Aninis per il re Nevio Pomp(uled)io». Accanto al Guerriero, risalente alla fine del VI secolo a.C., fu rinvenuto un busto di donna adorna di monili, probabilmente la sua compagna in vita, cui è stata attribuita la denominazione di Dama di Capestrano. Alcuni anni fa la rivista National Geographic si chiese se Nevio Pompuledio e Numa Pompilio, il mitico secondo Re di Roma, non fossero la stessa persona, anche per l’evidente assonanza del nome. D’altronde Numa Pompilio era d’origine sabina e i Sabini avevano il loro territorio nell’estremo lembo orientale confinante con i Vestini, laddove diciotto secoli dopo sarebbe stata fondata L’Aquila. Al riguardo Adriano La Regina, rammentando che Numa Pompilio governò Roma tra il 715 e il 673, osserva che Nevio Pompuledio con il Re di Roma ha in comune le iniziali, l’assonanza del nome e una certa affinità. Ma non ci si può spingere oltre, mancando gli elementi che lo consentano. Certo è che l’origine sabina di Numa Pompilio lo pose a cerniera tra i Romani e i popoli italici, con i quali nella sua lunga fase di regno Roma dovette fare i conti. Di Numa Pompilio restano alcuni riferimenti storici che segnalano la sua attenzione all’agricoltura, alle arti e ai culti religiosi. A lui è attribuito anche il passaggio del calendario da 10 a 12 mesi, con l’aggiunta di gennaio e febbraio. Tra i sette Re di Roma ricopre certamente un posto preminente, per saggezza e longevità del regno.
Occorre ora dire che il Guerriero di Capestrano prima, e successivamente i preziosi reperti archeologici rinvenuti in area vestina con le campagne di scavo degli ultimi due decenni, condotte dall’archeologo Vincenzo d’Ercole – sull’altopiano di Navelli, alle necropoli di Fossa e Bazzano, e nella Conca Subequana – hanno contribuito davvero a sovvertire consolidate concezioni storiche secondo le quali l’antico popolo italico che abitava questa regione interna dell’Abruzzo montano fosse isolato, composto di pastori un po’ rozzi, indietro rispetto ad altre civiltà del centro Italia. Si deve a tali campagne archeologiche ed ai tesori rinvenuti la scoperta d’una gente evoluta, raffinata negli ornamenti, ricca nei corredi funerari, come dimostrano le straordinarie dotazioni delle numerose tombe a camera delle necropoli di Fossa e Bazzano, gli splendidi letti d’osso, i gioielli e monili, come il pendaglio vitreo colorato chiamato “il principe di Bazzano”, che ha una singolare relazione con analoghe lavorazioni cartaginesi. D’altronde lo stesso Guerriero di Capestrano, le cui magnificenti fattezze non finiscono di destare ammirazione, si è riscontrato come abbia fatto scuola in centro Europa, sulle antiche vie che portavano all’ambra del Baltico. Lo dimostrano il “Guerriero di Hirchlanden”, rinvenuto in Germania nell’alto Wurttemberg, e il “Guerriero di Glauberg”, rinvenuto in Assia, non distante da Francoforte sul Meno.
Le due statue funerarie di pietra arenaria, scoperte in Germania, entrambe risalenti a cinque secoli a.C., pur distanti dalla raffinatezza stilistica del Guerriero di Capestrano, mostrano singolari affinità formali e posturali con la scultura del Re vestino Nevio Pompuledio. Una grande mostra sui Piceni – del quale più ampio popolo i Vestini erano parte insieme ad altre genti dell’antico Abruzzo, come Pretuzi, Sabini, Equi, Marsi, Peligni, Marrucini e Frentani – si tenne nel 1999 proprio a Francoforte. Quell’eccezionale evento espositivo, promosso dalle Regioni Marche e Abruzzo, mise a confronto il Guerriero di Capestrano con i “parenti minori” rinvenuti in Germania, unitamente ad altre testimonianze archeologiche, contribuendo a chiarire una forte consuetudine delle civiltà affacciate sull’Adriatico e di alcuni popoli dell’entroterra, quali appunto i Vestini, di relazioni e contatti non solo commerciali e di scambio, ma anche di amicizia, con la civiltà di Hallstatt e, più in generale, con i popoli europei lungo le vie dell’ambra. Una civiltà d’alto profilo, dunque, quella dei Vestini. E il Guerriero di Capestrano ne è l’esempio più plastico e illustre. La sua maestosa presenza nel Museo Archeologico Nazionale di Chieti lo assevera da molti anni. Da un paio di settimane, tuttavia, Nevio Pompuledio può vantare il rinnovamento della sua “reggia”, a Villa Frigerj, grazie alla nuova Sala permanente creata per il Guerriero di Capestrano da Mimmo Paladino, l’insigne scultore nato nel 1948 a Paduli (Benevento). Un’opera d’arte moderna per una splendida scultura di circa 2600 anni fa.
Ero a Chieti, il 26 gennaio scorso, per partecipare a due straordinari eventi che hanno connotato l’inizio del 2011 sotto il segno di Mimmo Paladino, del Guerriero di Capestrano e d’una nuova sede espositiva a Palazzo De Mayo. Due eventi eccezionali, si diceva, quali l’inaugurazione della Sala permanente del Guerriero di Capestrano, realizzata da Paladino nel Museo Nazionale Archeologico di Villa Frigerj, e la mostra personale dello scultore, incentrata sul “nuovo Guerriero”, allestita presso il centro espositivo della Fondazione Carichieti, a Palazzo De Mayo. I due eventi sono il risultato d’un fecondo e lungimirante dialogo tra pubblico e privato, fra la Soprintendenza per i Beni Archeologici d’Abruzzo e la Fondazione Carichieti. Ma ora andiamo per ordine. Il Guerriero di Capestrano, emblema prestigioso della scultura arcaica italica, nel nuovo ambiente creato dallo scultore Mimmo Paladino, è sospeso in una dimensione senza tempo, nell’osmotica continuità fra passato e presente. Per la prima volta in Italia, un artista contemporaneo dà vita ad un “ambiente” destinato ad ospitare un capolavoro archeologico d’assoluta rilevanza. All’inaugurazione della nuova Sala permanente, l’androne di Villa Frigerj ricolma di pubblico nonostante il tempo inclemente che in quei giorni imbiancava Chieti con mezzo metro di neve, il Soprintendente per i Beni Archeologici d’Abruzzo, Andrea Pessina, il direttore del Museo, Maria Ruggeri, ed il critico Gabriele Simongini, che per Allemandi ha curato i cataloghi dei due eventi, hanno sottolineato con comprensibile orgoglio la rilevanza dell’intervento.
Il Soprintendente, in particolare, richiamando l’impegnativo lavoro condotto con l’équipe dello scultore, ha definito l’opera di Paladino “…un intervento misurato e rispettoso. Siamo contenti di quello che abbiamo fatto per la Sala del Guerriero, un’esperienza che potrebbe far nascere non solo in Italia una nuova idea di museo. L’opera di Paladino non è seriale, è semplicemente un capolavoro. L’intervento del Maestro ha collocato il Guerriero nel suo giusto contesto – ha ancora annotato Andrea Pessina – facendogli recuperare quella religiosità che le è propria per essere una scultura funeraria”. Gabriele Simongini, nel suo intervento, ha peraltro annotato che “… l’evento costituisce quasi un ritorno a casa mia, perché è un museo che si è abituato ad accogliere l’arte contemporanea, in un dialogo tra antico e moderno. Un evento originale, non percorso da strade simili. I valori estetici nei musei – ha aggiunto Simongini – talvolta vengono annullati dall’aspetto storico, filologico e documentario. Paladino ci porta, con questo intervento, in uno spazio sacrale, in un tempio laico. Finora le opere d’arte antiche erano viste come “fossili”. Ora la cronologia perde il suo senso storico, a favore dell’arte e dell’estetica. Si saltano, cioè, le barriere temporali, grazie ad un intervento artistico che si realizza in un’opera completa che assembla scultura, architettura, illuminazione e suono. Una preziosa sinestesia dove anche l’ombra del Guerriero sulla curva parete adorna dei graffiti del maestro Palladino, recitano la loro suggestione”. Il direttore del Museo, Maria Guerrieri, ha descritto l’intervento di Palladino nei suoi dettagli, nella realizzazione del pavimento della Sala con la stessa pietra calcarea locale con la quale il Guerriero fu realizzato, onde conservare la medesima tonalità del colore. E quei graffiti dello scultore sulle pareti, quasi segni della scrittura e delle immagini lasciati dalla storia, quasi una continuità nel tempo.
Conclusi gli interventi inaugurali, la visita alla nuova Sala del Guerriero ha destato grande suggestione. Un’emozione che ho voluto ancora riassaporare, tornando in visita al Museo con più calma e meditazione, qualche giorno fa. E molto convincenti mi sono apparse le considerazioni che Gabriele Simongini ha svolto nel suo ampio saggio in catalogo. “Mimmo Paladino – scrive Simongini – ha scelto di entrare con rispetto, misura e circospezione nel Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, sulla scia dell’aura che circonda il Guerriero per dargli una nuova casa, una sala sospesa in una dimensione senza tempo. L’evento pionieristico e coraggioso che ha portato alla realizzazione della nuova sala permanente del Guerriero, oltre all’antisala grigia che fa da viatico, non è un puro e semplice allestimento ma è la creazione di uno spazio architettonico che in sé accoglie, oltre al massimo capolavoro della scultura arcaica italica, un intervento creativo discreto, misurato e minimale che va scoperto lentamente; gli aerei e leggerissimi graffiti di Paladino quasi sfiorano le pareti come segni poetici e quindi lontanissimi da qualsiasi dimensione didascalica e storicistica. L’artista campano trasforma la sala del Guerriero in un’esperienza proposta al visitatore sotto il segno della contemplazione estetica, silenziosa e concentrata. Al centro di quest’opera totale, fatta di spazi architettonici, graffiti e illuminazione ad hoc e che forse in futuro potrebbe perfino accogliere la musica, sta sempre e comunque il Guerriero di Capestrano, la cui assoluta ed emblematica potenza geometrica è stata ribadita da Paladino con una mirabile intuizione spaziale: applicando la proporzione aurea, il cerchio del copricapo (…) genera un’ellissoide (…) che dà forma curva alla sala, spazio fluido, continuo, sospeso, senza angoli. Lo spazio fluido della Sala è generato dal mirabile copricapo ma al tempo stesso avvolge il Guerriero con una calda accoglienza esaltata pure dall’accordo cromatico fra la scultura e il colore delle pareti: macinando la stessa pietra calcarea locale con cui è stato scolpito il Guerriero, si è ottenuta una tinta perfettamente armonizzata con la statua e usata in diverse tonalità sia per il pavimento che per le pareti”.
L’obiettivo chiaro ed ambizioso che l’artista si è posto lo esprime lo stesso Palladino: “Ho voluto quasi depurare il Guerriero dal significato che lo determina storicamente e che lo data. Chi lo guarda ne deve trarre suggestioni che vanno al di là della sua collocazione cronologica. Secondo me l’opera d’arte deve educare il gusto al guardare. In tal senso condivido quel che diceva Berenson: «Bisogna agevolare la formazione del gusto, che si sviluppa naturalmente, come i muscoli e il cervello, attraverso l’esercizio e l’esperienza». E così ho tentato di aggiungere un altro valore al valore stesso dell’opera, per darle modo di esprimere tutte le sue qualità. Un po’ come se avessi fatto un pezzo di teatro. Ho cercato un gesto primario – aggiunge Palladino – e l’ho individuato nel graffito, il primo segno che l’uomo ha tracciato sulle pareti della caverna, un graffio nel muro con una pietra. Ho accennato ad un’ipotetica scrittura sconosciuta. A Chieti, emergono come apparizioni sagome di teste, frecce, animali, rami, utensili, una clessidra e molto altro, con un percorso segnico sostanzialmente minimale, tanto che qualsiasi mero elenco descrittivo pare inadeguato. Sono testimoni che in qualche modo osservano il Guerriero avvolgendolo e partecipando con discrezione al suo spazio sacrale”.
Palazzo De Mayo è uno storico edificio d’impianto barocco, sul corso cittadino, a qualche centinaio di metri da Villa Frigerj. Quasi un filo d’Arianna lega questa sede espositiva con il Museo Archeologico, una correlazione tra due eventi. Con l’accurato restauro in via di completamento, Palazzo De Mayo presto sarà restituito alla città di Chieti come presidio culturale ed espositivo di valore, secondo l’illuminato progetto della Fondazione Carichieti e del suo presidente, Mario Di Nisio. Di significativa valenza architettonica, l’imponente Palazzo è costituito da una serie di corpi di fabbrica che incorporano alcune corti, nonché un giardino interno di circa 700 metri quadrati. La Fondazione, con il restauro del Palazzo, oltre a restituire alla città una delle migliori testimonianze barocche in Abruzzo, attiva un modello esemplare per la riqualificazione dell’intero centro storico, grazie alla funzione culturale e sociale di rilievo che il Palazzo andrà ad assumere. Ospiterà infatti la sede della Fondazione, il Centro Abruzzese di Studi Manzoniani, l’istituendo Centro Studi Alessandro Valignano, un museo con più collezioni, una biblioteca, un auditorium e diverse sale per mostre permanenti e temporanee. Insomma, uno spazio ideale per incontri letterari, concerti, conferenze e quanto sia d’interesse per la crescita e lo sviluppo della cultura. E’ appunto in alcune sale già completate nel restauro e in due corti interne che il percorso espositivo delle opere di Mimmo Palladino si dispiega. Nelle corti sono esposti il grande “Elmo” bronzeo, il “Carro” e il “Cavallo”, nelle sale sette grandi sculture, compresa una terracotta realizzata in tandem con l’abruzzese Ettore Spalletti. In un’altra sala, su un unico ampio piedistallo, è esposto un insieme di 75 piccole sculture in bronzo, ferro, creta, legno, una cornucopia artistica di grande impatto. Ma è il “nuovo Guerriero” di Paladino che più d’ogni altra opera suggestiona, specie se contemplato in un intrigante parallelismo con il Guerriero di Capestrano.
Il nuovo Guerriero realizzato da Paladino è il nucleo centrale la personale di sculture che ha inaugurato le sale espositive di Palazzo De Mayo e che resterà in mostra fino al 30 aprile. Appositamente creata dall’artista per la mostra “Mimmo Paladino e il nuovo Guerriero. La scultura come cosmogonia”, è un’opera in terracotta di 2,56 metri d’altezza, omaggio visionario al Guerriero di Capestrano. “Nella mia nuova opera – dichiara Mimmo Paladino – c’è una netta impostazione geometrica che si concretizza chiaramente nel copricapo. Nel complesso la scultura è quasi una struttura architettonica, una casa, richiamata dall’uso ripetuto delle tegole e dal cappello che diventa anche una sorta di tetto. La tegola in alto, che si incrocia con la mano, traccia una diagonale che dal corpo arriva idealmente fino al copricapo. Ho scelto la terracotta perché questo materiale dalle proprietà elementari e trasformative richiama la forza arcaica della pietra calcarea con cui è stato scolpito il Guerriero di Capestrano”. Nel suo saggio in catalogo, Gabriele Simongini tra l’altro annota: “L’arte di Paladino, interessata più all’essere che al divenire, ha una dimensione sovratemporale che immobilizza l’istante fuggevole in una durata perenne. Il suo metamorfico arcaismo formale è una via verso la sperimentazione e rimanda continuamente a un cortocircuito fra passato, presente e futuro che ricorda il concetto bergsoniano di durata”. Per Simongini gli elementi compositivi dell’opera “orizzontali, verticali e diagonali segnano quindi una presenza scultorea ed architettonica dal forte impatto visivo: un nuovo Guerriero severo, ascetico, totemico, chiuso nel suo riserbo geometrico ed enigmatico”.
Enzo Di Martino, che dedica un coinvolgente saggio al nuovo Guerriero, parlando di Aninis – il presunto autore del Guerriero di Capestrano – e di Paladino, tra l’altro scrive: “Appare evidente anche a prima vista che tra i due artisti, pur separati da oltre duemila anni di storia, viene messa in atto un’operazione di vero e proprio rispecchiamento, e non solo perché i due Re Guerrieri formalmente risultano somiglianti. Un’occhiata più attenta ed insistita rivela tuttavia che la figura di Paladino è in realtà molto diversa, è più alta e più semplificata, perfino più spigolosa; le decorazioni sono infatti quasi del tutto scomparse, la struttura della forma plastica è divenuta più segnata ed essenziale. L’intenzione non è più quella di rappresentare una figura magico-sacrale ma, partendo dal confronto, realizzare una scultura che viva nella contemporaneità”. In definitiva, questa straordinaria sperimentazione artistica sui due Guerrieri che Paladino ha realizzato correlando due sculture divise da tre millenni, genera indubbiamente forti emozioni anche ad un visitatore come chi scrive, in difetto di competenze critiche almeno sufficienti. E’ proprio vero che talvolta l’arte autentica d’uno scultore insigne, quale Mimmo Paladino notoriamente è, riesce a trovare vie insolite di comunione spirituale che sono l’essenza stessa della bellezza per antonomasia. Quella stessa che rompe le barriere e non fa torto ai più, riuscendo ad emozionare. Comunque e sempre.