Imboscata alla vigilia del voto, soldato italiano colpito a morte

di Fausto Biloslavo

Afghanistan. Il tenente Alessandro Romani, un veterano di 36 anni, stava partecipando a un’operazione anti-talebani. Ferito un altro militare. Bicicletta-bomba contro i nostri a Herat, razzo lanciato sulla base di Shindand
Un incursore caduto in combattimento ed un altro ferito, elicotteri costretti a un blitz per portare schede e urne nei postacci infestati dai talebani, una bicicletta bomba scoppiata fra i civili, un razzo contro la base di Shindand: sono le notizie dal fronte italiano in Afghanistan alla vigilia delle elezioni parlamentari. I seggi apriranno oggi per scegliere, fra 2500 candidati, i 249 membri della Camera bassa di Kabul. Il tributo di sangue e sudore di 3500 soldati italiani renderà possibile il voto nell'Afghanistan occidentale, dove 131 seggi su 1087 non apriranno a causa della minaccia talebana.
Per garantire la sicurezza del voto, il tenente Alessandro Romani, 36 anni, veterano del 9° Reggimento d'assalto Col Moschin, è stato ucciso in combattimento. Il trentesimo caduto in Afghanistan. Con lui un altro incursore paracadutista, il primo caporalmaggiore Elio Domenico Rapisarda, è rimasto ferito ad un braccio.
Ieri mattina un velivolo senza pilota del 28° gruppo “Le streghe” individua dall'alto «quattro insorti mentre posizionavano un ordigno lungo la strada da Farah a Delaram», si legge nel comunicato del comando italiano. La trappola esplosiva attendeva un convoglio diretto a Bakwa, dove ci sono gli alpini del 7° Reggimento della leggendaria brigata Julia.
Il silenzioso Predator segue dall'alto il nucleo di talebani, che si spostano, scoprendo il loro rifugio. «Sia i velivoli a pilotaggio remoto, che i 4 caccia Amx (senza bombe per decisione politica nda) vengono utilizzati per sorvegliare dal cielo le aree sensibili», spiegava al Giornale il generale Claudio Berto, che comanda il settore Ovest, prima dello scontro mortale – Gli insorti piazzano le trappole esplosive, in aumento rispetto all'anno precedente, perchè non sono in grado di affrontarci in attacchi diretti». Negli ultimi cinque mesi ne sono esplose 189 e 162 sono state disinnescate.
Una volta individuata la base talebana scatta la missione della Task force 45, composta dai corpi speciali italiani. Un'aliquota di incursori si imbarca su un elicottero Ch 47 scortato da due Mangusta d'attacco. Gli incursori sbarcano per attaccare il compound dei talebani. Gli insorti sono ben piazzati ed armati fino ai denti. Investono con una valanga di fuoco gli uomini dei corpi speciali. Il tenente, celibe, originario di Roma, viene colpito al polmone dai colpi di kalashnikov dei talebani . L'altro incursore è ferito ad un braccio. I due vengono evacuati e all'ospedale militare americano di Farah. Purtroppo Romani non ce la fa. Occhi azzurri, capelli a spazzola, lo ricordano «sempre con il sorriso sulle labbra», anche in prima linea.
«Abbiamo sentito il fragore dello scontro e visto il fumo che saliva», raccontano dalla base avanzata a Bakwa, dove dal primo settembre si è formato il quarto Battle group italiano. Dopo il ferimento dei due incursori gli elicotteri Mangusta colpiscono duramente il fortilizio dei talebani.
Nell'area si sospetta che ci siano combattenti stranieri legati ad Al Qaida. «Vengono segnalati un po' dappertutto – spiega il generale Berto – ma le garantisco che abbiamo già abbastanza da fare con gli insorti locali». Tagliagole vari, spesso coinvolti nel traffico di oppio, che minacciano di mutilare chi andrà a votare. Ieri un elicottero Ch 47 scortato dai Mangusta ha compiuto un blitz trasportando schede e urne per i seggi dei distretti meridionali più a rischio del Gulistan e di Por Chaman. Ad Herat una bicicletta minata ha ferito tre civili.
«È vero che nei villaggi sperduti, come al di fuori della bolla di sicurezza a Bala Murghab, dove non abbiamo mai messo piede, la gente ha paura e gli insorti intimano al consiglio degli anziani di boicottare il voto», osserva il comandante del settore ovest. Non mancano «i talebani democratici», che invece indicano il loro candidato preferito. «Un altro discorso vale per le grandi città come Herat o Farah – fa notare Berto – Dove la gente è facilitata e vuole andare alle urne». I talebani hanno minacciato di attaccare i seggi con azioni kamikaze. «Qualche giorno fa un terrorista ha tentato di farsi esplodere nella casa del governatore di Farah. Fuori da Camp Arena, dove si trova il mio comando, ci hanno provato con due macchine minate – osserva il generale – . Gli allarmi su possibili attacchi suicidi sono costanti da quando siamo arrivati, cinque mesi fa».

sabato 4 settembre 2010

La valle afghana dove ora regna la pax italiana

di Gian Micalessin

A Bala Mourghab, nel Nordovest del Paese, i nostri alpini e gli alleati sono riusciti a sconfiggere i talebani che taglieggiavano gli abitanti. Nei villaggi hanno ricostruito i pozzi e riaperto i mercati. Anche il generale Petraeus li ha elogiati: “Hanno compiuto uno sforzo tremendo”
“Ci sparavano da quei tre tetti a cupola, i proiettili ci sibilavano tra le orecchie, mordevano i parapetti della trincea… allora ho dato ordine di aprire il fuoco con le mitragliatrici e due minuti dopo non si è più sentito uno sparo”. La chiamano “Operazione Buongiorno”, ma dura da 5 mesi e di giornate calde come quella il Maresciallo Luca Antonacci ne ha vissute tante. Anche perché, per settimane, la madre di tutte le battaglie si è combattuta qui attorno all’avamposto Cavour. Qui il caporal maggiore Roberta Zimbaro, una 26enne calabrese con già in tasca i galloni di Miss Trincea ha vissuto il battesimo del fuoco. “Avevo tanta paura e non capivo niente… per vincerla mi son piegata sulla mitragliatrice e non ho mollato il grilletto fin a quando non se ne sono andati”. Qui il 3° reggimento Taurinense, gli alpini della Task Force Nord, come li chiamano al comando Isaf, riscoprono la guerra dei bisnonni, la guerra di 90 anni fa tra le cime delle Dolomiti trasformati in alveari di roccia sanguigna. Al maresciallo Antonacci e al suo plotone il 2010 riserva la sabbia vermiglia dell’Afghanistan. Una sabbia fine come il talco, una polvere da spalare e respirare, sudare e odiare. Ma questa cima nuda e torrida non è il nemico. E non lo è il sudore versato per trasformarla in gruviera di gesso sottile. Il nemico è altrove. È laggiù, duecento metri più sotto, tra l’argilla di Qibchack, tra le case di fango impastato dove, fino a qualche settimana fa, insorti e talebani giocano a nascondino tra le abitazioni abbandonate, scaricano bordate di missili e razzi verso l’alveare germogliato sopra le loro teste.
Per anni Qibchack è solo una delle tante insidie disseminate tra i picchi di Bala Mourghab. I soldati italiani arrivano in questa valle nell’agosto del 2008, occupano un ex cotonificio diroccato, costruiscono le prime fortificazioni. Da allora non conoscono pace. Il dispiegamento studiato per aprire i collegamenti tra le provincie occidentali e quelle settentrionali apre invece un nuovo fronte. Talebani, trafficanti di armi e signori della droga considerano quest’angolo d’Afghanistan a un pugno chilometri dal Turkmenistan il loro santuario. E non tollerano intrusi. In breve l’ex cotonificio e gli altri avamposti diventano il bersaglio preferito per missili, razzi e lanciagranate. Neppure le offensive della Folgore e dell’esercito afghano della primavera 2009 riescono a estendere il controllo a più di due chilometri dalla base. Lo scorso aprile l’arrivo di una compagnia americana offre al colonnello Massimo Biagini, comandante del 2° reggimento alpini, l’opportunità per lanciare l’offensiva sempre rinviata. “Con l’appoggio degli americani e dell’esercito afghano abbiamo ripulito la valle metro dopo metro, villaggio dopo villaggio… ora la “bolla” di sicurezza sotto il nostro controllo si estende per venti chilometri da nord a sud lungo il corso del fiume Mourghab”. Quella bolla di venti chilometri, quelle trincee rispuntate dal passato, quei villaggi dove in pochi mesi sono tornate a vivere oltre 7.000 persone sono l’orgoglio del colonnello. Lui li indica uno a uno distendendosi dal ciglio della trincea, mostrandoli a quel gigante da due metri per 130 chili dell’ onorevole Guido Crosetto, l’imponente sottosegretario alla difesa volato fin qui per vedere di persona i successi dei suoi soldati. Per il generale americano David Petraeus, il rude comandante di Isaf incontrato a Kabul l’operazione Buongiorno si riassume in tre semplici parole: “a tremendous effort”. Quello “sforzo tremendo” visto dal cuore di questo intreccio di trincee e bunker è ancora più sorprendente. Qui si bivacca nel cuore della montagna, qui la vita è branda e fucile, scatolette e sabbia, solitudine e turni di guardia. Qui, a 45 gradi all’ombra, l’alpino diventa vedetta afghana, vigila sui villaggi “liberati”, tiene a distanza il nemico talebano, disegna scarpata dopo scarpata, vetta dopo vetta quell’intreccio ridondante che gli americani chiamano “strategia antinsurrezionali” e noi italiani “semplice buon senso”. Il colonnello Biagini lo riassume in tre parole: “sicurezza, governabilità ricostruzione”. “Abbiamo ripulito i villaggi uno dopo l’altro, dall’avamposto Cavour siamo scesi quattro chilometri più a sud, ma la supremazia su un terreno dove abbiamo trovato 72 trappole esplosive e respinto 70 attacchi si conquista anche garantendo sicurezza e benessere. In ogni villaggio riconquistato abbiamo assunto artigiani e manovali, abbiamo ricostruito pozzi e mercati. Ci è costato 180 mila dollari e tanta fatica, ma con quei soldi e quel sudore abbiamo garantito il primo spicchio di stabilità e pace. E per Bala Mourgah e i suoi abitanti è stato, credetemi, un vero “buongiorno”.
LA VALLE AFGHANA DOVE REGNA LA PAX ITALIANA

martedì 7 settembre 2010

Sorpresa, l’Italia sta vincendo in Afghanistan

di Gian Micalessin

I soldati italiani applicano la strategia americana e la dottrina Petraeus con un pizzico di fantasia nostrana. Nella provincia di Farah, dove un tempo era rischioso circolare, ora gli alpini dormono nei villaggi con i locali
Shindand – Era la valle dell’oppio e della morte. La valle dove nel settembre 2007 furono rapiti due agenti del Sismi liberati con il sanguinoso blitz costato la vita a Lorenzo Lauria. Tre anni dopo è uno dei simboli del successo italiano nelle provincie occidentali dell’Afghanistan. Oggi i nostri alpini dormono nei suoi villaggi, trattano con gli anziani, contendono il territorio ai talebani e ai trafficanti di oppio. Oggi il 31enne capitano Emanuele De Mitri del 3° reggimento alpini è uno dei padroni di casa della Zeerko Valley. Il titolo gli spetta di diritto. Da mesi questo ufficiale e gli uomini della 36ma compagnia al suo comando, sono gli ospiti fissi della vallata, gli inquilini di uno sperduto avamposto denominato «base Luna». «Le primo volte leggevo la paura e la diffidenza negli occhi degli anziani dei villaggi … da quelle parti aver rapporti con noi significava rischia di essere decapitati. Ora non soltanto ci considerano ospiti abituali, ma ci passano informazioni sugli ordigni piazzati contro le nostre pattuglie e sul passaggio delle bande d’insorti».

La ricetta del giovane capitano, originario di Lequile in provincia di Lecce, è come sempre un miscuglio di strategia americana e di fantasia italiana. La strategia americana è quella riscoperta dal generale David Petraeus rileggendo il manuale anti guerriglia scritto negli anni 50 da David Galula, un giovane ufficiale franco tunisino ispirato dall’inferno della guerra d’Algeria. La dottrina Galula – sviluppata da Petraeus prima in chiave irachena e poi afghana – raccomanda innanzitutto la protezione dei civili e dei centri abitati. Emanuele de Mitro e i suoi uomini lo fanno quotidianamente. «La base Luna nella valle di Zeerko è la realizzazione pratica della dottrina Petraeus – assicura il colonnello Giulio Armando Lucia, comandante della base di Shindand e del 3° reggimento alpini – lì una squadra di 18 alpini affiancati da soldati afghani trascorre turni di una settimana in un presidio a fianco di un villaggio. Stando lì capiamo le necessità degli abitanti, finanziamo la costruzione di pozzi e altre infrastrutture ottenendo informazioni preziose per contrastare l’attività dei talebani». A far la differenza è anche qui la «via» italiana alla conquista delle menti e dei cuori afghani. I marine statunitensi arrivati nella Zeerko Valley per dar vita a milizie di autodifesa fanno i conti, anche a causa di metodi troppo pressanti e aggressivi, con l’ostilità della popolazione. Il capitano Emanuele De Mitri e i suoi lavorano con più calma. «Cerchiamo d’imporci, rispettando tradizioni e abitudini. I progressi sono più lenti, ma evidenti. Prima eravamo soltanto intrusi, oggi molti sono pronti a rischiar la vita per passarci informazioni sui talebani. Questo si traduce in sicurezza e controllo del territorio».

I successi della Zeerko Valley sono anche la conseguenza dell’allargamento del nostro contingente passato dai 2.500 uomini di due anni fa a oltre 3.500. Questo consente lo schieramento di 1.300 militari italiani pienamente operativi e in grado di contendere ai talebani il controllo del territorio. Agli effettivi italiani vanno aggiunti 2.000 soldati americani, 1.500 spagnoli e vari altri contingenti per un totale di circa 7.000 mila uomini. La decisione del comando Isaf di concentrare queste forze – raddoppiate nel giro di due anni – esclusivamente intorno alle aree più abitate e agli assi di comunicazioni più importanti sta trasformando gli italiani e gli alleati in forza egemone. L’esempio più concreto è quello della famigerata 517 la strada sui cadde nel luglio 2009 il paracadutista della Folgore Di Lisio. Su quella strada i nostri soldati erano continuamente esposti alle imboscate organizzate al villaggio di Shiwan, una delle roccaforti talebane della provincia di Farah. Oggi a dar retta al colonnello Franco Federici, comandante del quartier generale italiano nella provincia la situazione è decisamente migliorata. «Un tempo tutta la provincia di Farah e il villaggio di Shiwan erano minacciati dai talebani in movimento verso ovest, oggi invece garantiamo la libertà di transito sulla 517 e gli insorti non sono più in grado di attaccarci in terreno aperto. L’unica arma a loro disposizione restano le trappole esplosive». Anche qui però il controllo del territorio consente di sfruttare al meglio le informazioni fornite da una popolazione ormai abituata a vivere a stretto controllo con gli italiani. «Guardate le statistiche degli ultimi mesi, qui a Farah – spiega Federici – sono esplose 56 trappole esplosive, ma i nostri uomini ne hanno disinnescate 57 Questo perché le informazioni raccolte sul terreno ci consentono di neutralizzare gran parte delle minacce». Ma la marcia degli alpini e del contingente italiano non si ferma. Il primo settembre la «task force sud est» , una nuova unità composta dal 7° reggimento alpini e dalla Brigata Julia, ha assunto il controllo di una base nel Gulistan e di una a Bakwa, due località considerate un tempo i santuari talebani della provincia. Gli americani fino a qualche tempo erano convinti di esser gli unici a poterne garantire il controllo. Dopo la visita del comandante David Petraeus al settore ovest qualcuno però ha deciso che Italians do it better». Gli italiani lo fanno meglio.

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