Tra un morto ammazzato e un carcere costretto a vivere del suo, ecco che un paio di detenuti hanno pensato bene di levare le tende, darsela a gambe.
Un’evasione da non poter essere neppure raccontata, perché privata in partenza di ogni letteratura, di qualsivoglia vanteria criminale. Se ne sono andati dentro un vero e proprio tradimento culturale, volgendo le spalle a quel patto di lealtà, stipulato innanzitutto con se stessi, con le Istituzioni, con la gente all’intorno, ristretta e libera.
Un’evasione messa in atto da persone di scarsa pericolosità sociale, a bassa soglia di attenzione, un’evasione accaduta non per mancanza di personale, ma perché a metterla in scena sono stati “ quelli dalla faccia voltata indietro” per dirla alla Adriano Sofri, uomini destinati a varcare nuovamente il cancello blindato di un penitenziario, perché in quei passi affrettati verso una libertà prostituta ci sono le certezze inconfessabili per un ritorno a breve termine nelle patrie galere.
Lo hanno fatto non da un istituto additato a fortino della disumanità, no, hanno scardinato la propria dignità da un luogo fortemente deputato a svolgere il ruolo di recupero del condannato, la propria utilità sociale sul versante della giusta pena da scontare e della conseguente riparazione da mettere in pratica.
Tanti anni fa anch’io ho usufruito di questa opportunità, dentro un progetto di destrutturazione e ricostruzione interiore, ho avuto la possibilità di ritornare a essere una persona migliore. Conosco bene la metodologia del lavoro esterno in e fuori dal carcere, e come rientrando nei requisiti previsti, sia possibile (per pochi), accedere all’istituto dell’ art. 21, come questa eventuale concessione implichi il mettere in gioco la propria autorevolezza e il proprio prestigio per la Direzione del carcere.
Per arrivare a questo obiettivo, non è sufficiente la mera buona condotta, non è un beneficio strettamente imparentato con una sorta di automatismo. Avevo trascorso oltre venti anni di carcere, non mi erano mai stati concessi permessi premio, l’art. 21 è tutto incentrato sullo strumento principe per ogni trattamento rieducativo: il lavoro e la dignità che ne deriva.
In quella “evasione” non c’entrano né pesano le problematiche endemiche dell’Amministrazione Penitenziaria: il sovraffollamento, la carenza di personale, l’assenza di investimenti finanziari appropriati.
Il detenuto ammesso al lavoro esterno è una persona che gode di fiducia, capace di affidabilità, protagonista di un percorso di risalita esistenziale, di un cambiamento di mentalità.
Avrei potuto anch’io alzare i tacchi, “evadere”, ma quando non si ha più residenzialità con il proprio passato criminale, con la pericolosità sociale, il cammino in atto non è più strettamente legato al solo contenimento, alla sola incapacitazione, bensì è sinonimo di collaborazione lavorativa e di risvolti umani condivisi.
Potevo incamminarmi verso l’uscita, verso la rete metallica, verso una libertà miserabile, ma non mi è mai sfiorata l’idea di ritornare a una vita sottobanco, per anni ho usufruito del lavoro interno-esterno alla prigione, soprattutto di una piccola ma grande manutenzione dell’anima, e ogni giorno che scorre via, comprendo il valore delle responsabilità acquisite che fanno la distanza da “quelli dalla faccia voltata indietro”.