Tremonti tra piccoli sassi e grandi massi

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Se un masso ostruisce la strada, non basta fare il pieno di benzina alla macchina per superarlo: occorre rimuoverlo per andare avanti. E’ una delle tante metafore che il ministro Giulio Tremonti ci ha recentemente raccontato. E’ una riflessione vera, peccato che sia stata un po’ sprecata per sostenere la magra proposta sulla libertà d’impresa e il tentativo di giustificare risolutori tagli di bilancio. Se veramente bastassero meno burocrazia e dei ritocchi ai conti pubblici, sicuramente necessari, per sgonfiare la bolla del debito e per rimettere in moto il motore dell’economia, tutti sarebbero disposti a dei sacrifici, che comunque dovrebbero interessare soprattutto i detentori di grandi patrimoni e di alti redditi..

Forse Tremonti ha volutamente scambiato “la pagliuzza per la trave”. Lui sa che il masso da rimuovere è un altro e più grande. Si chiama “fallimento di un sistema finanziario perverso e senza regole” che, più di due anni dopo l’esplosione della crisi finanziaria e bancaria mondiale, ancora domina i mercati.

Nei giorni scorsi la Federal Reserve ha completato uno studio sui comportamenti di 28 tra le maggiori banche americane e ha concluso che i programmi di incentivi e di bonus, che tanto hanno contribuito a provocare la crisi peggiore dalla Grande Depressione del ’29, rimangono al loro posto. E i gestori di operazioni ad alto rischio operano come prima. Ma sembra che la Fed non intenda renderlo pubblico prima del prossimo anno. Questo la dice lunga sulla volontà di intervenire per correggere le malefatte e portare chiarezza nei settori più opachi della finanza.

Kenneth Feinberg, lo “zar anti bonus” nominato dal presidente Obama per indagare sul comportamento delle banche che hanno usufruito degli aiuti governativi per evitare la bancarotta, avrebbe concluso che i 25 massimi dirigenti di 180 dei 420 istituti finanziari coinvolti, hanno continuato a incassare bonus e prebende vergognose. Feinberg non ha un’autorità esecutiva, può soltanto denunciare pubblicamente i fatti e forse creare abbastanza imbarazzo per chi ha abusato dei soldi pubblici.

Un altro masso da rimuovere è rappresentato dai derivati OTC che, dopo un ridimensionamento iniziale all’inizio della crisi, hanno continuato a crescere, mentre la produzione, l’occupazione e l’economia nel suo insieme calavano. Negli Usa a fine dicembre 2009 sono arrivati a 213 trilioni di dollari e a livello mondiale a 615 trilioni con un aumento del 12% in un anno.

Per le banche, la combinazione della bolla dei derivati, dei titoli tossici presenti nei loro bilanci e della rinvigorita propensione al rischio speculativo, sta creando nuove minacce di crisi.

Se ne è parlato anche in un recente convegno finanziario a Vienna e alla Bce di Francoforte. La paura di nuove insolvenze sta minando la fiducia tra le stesse banche che, senza assolute garanzie, non si fanno più credito tra di loro. L’aumento costante e progressivo del tasso Libor (London interbanking offered rate, il tasso di riferimento per i crediti a breve tra banche) sta a sottolineare queste difficoltà. Nel mezzo della paralisi provocata dal fallimento della Lehman Brothers e dalla paura di altri crolli bancari, era arrivato quasi al 5%.

L’Institute of International Finance (IIF), una potente lobby che rappresenta oltre 400 banche, ha fatto a Vienna un’alzata di scudi contro le riforme bancarie in discussione al G20, che, secondo loro, porterebbero ad una perdita di Pil del 3% in 5 anni nei paesi industrializzati. L’IIF calcola che nello stesso periodo, a seguito della riforma bancaria, l’intero settore necessiterà di un aumento di 700 miliardi di dollari di capitale azionario e dovrà sottoscrivere nuovi debiti per 5,4 trilioni di dollari per far fronte a nuove richieste di capitale e di liquidità. A Vienna si è domandato che, nel mezzo delle attuali turbolenze dei mercati, i risultati dello stress test di molte banche europee dovrebbero rimanere confidenziali. Evidentemente si tratta di conti non molto rosei.

Di fronte a tali dimensioni dei problemi e a tali sfide, dovrebbe essere evidente che i tagli di 25 miliardi di euro in due anni in Italia o di 80 miliardi in 4 anni in Germania, incideranno marginalmente sulle cause della crisi. Non spostano i massi pesanti.

Certamente bisogna riconoscere a Tremonti di essere stato tra i primi uomini di governo a parlare della necessità di una riforma del sistema, di regole più stringenti e condivise e di un nuova Bretton Woods. Forse oggi l’atto più coraggioso e di immediato effetto politico sarebbe l’adesione dell’Italia alle decisioni della Merkel e di Sarkozy di proibire le speculazioni in derivati e tutte le operazioni finanziarie “nude”, fatte senza vere garanzie e senza un interesse effettivo per i titoli o le merci sottostanti.

Sarebbe un segnale importante e la concreta dimostrazione della volontà di costruire un’Europa con sufficiente autorità per intervenire e cambiare le regole del sistema.

*Sottosegretario all'Economia nel governo Prodi ** Economista

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