Elena Loewenthal, su La Stampa del 6 gennaio, a proposito di Neha, la sventurata bambina undicenne di Mumbai, che si è suicidata impiccandosi con una sciarpa, scrive: “Mai come ora – per lo meno nel mondo cosiddetto «civile» – i bambini sono stati salvaguardati nella loro incolumità fisica e psicologica. Eppure ancora fatichiamo a comprendere la materia fragile, delicata che sono, da maneggiare con il corpo e con il cuore. E tanto vulnerabile quanto sconosciuta: ci riempiono la vita, eppure sappiamo così poco di loro, perché i bambini restano, per noi adulti, un terribile mistero”. Poiché sono certo della buona fede di Elena Loewenthal, penso che l'ultima affermazione sia un'inconsapevole ipocrisia. Sembra quasi che non siamo mai stati bambini, e che non serbiamo ancora vivo il ricordo delle nostre paure, delle piccole e grandi sofferenze, e delle piccole e grandi gioie, anche se non possiamo ovviamente avere il ricordo della primissima infanzia. I nostri figli sono un mistero perché capirli, abituarli a parlare con noi, costa tempo ed energie, ed alle volte il tempo e le energie mancano, altre volte per egoismo preferiamo dedicarli a cose che convengono di più o che ci fanno maggior piacere. E' più facile dare un ordine, anziché perdere tempo, magari molto tempo, per persuadere un bambino che andare a scuola è importante per lui, o che è necessario fare una determinata cosa. Tranne casi eccezionali, non è difficile per un genitore leggere negli occhi dei figli la serenità o l'infelicità. Siamo noi che ci mettiamo occhiali scuri per non vedere. Alle volte poi, specialmente se si tratta di un maschietto, qualcuno arriva a pensare che un po' di sofferenza servirà a farlo crescere, a farlo diventare un vero uomo.
Renato Pierri