Uguaglianza, libertà  e comunanza. Il socialismo non è poi così cattivo

Frankfurter Allgemeine Zeitung, 20 dicembre 2009

di Rainer Hank

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)

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Idillio socialista: chi ormai si occupa qui del Tuo o del Mio?

20 dicembre 2009 – Fateci progettare una vacanza in camping fra amici. Tutti noi vogliamo un paio di giorni di divertimento. Ognuno può fare ciò che desidera. Insieme ci dividiamo i lavori – fare acquisti, cucinare, lavare le stoviglie –, ognuno può contribuire per la sua parte alla buona riuscita del tutto. Le gerarchie del nostro mondo lavorativo quotidiano (Fred ha fatto carriera e ha guadagnato un bel po’ di soldi, Wolfgang ha fatto fallimento) durante quei giorni non contano più.

Il nostro campeggio di tende è un mondo di uguaglianza e di buona concordia. Ciò non significa che tutti facciano o ricevano sempre la stessa cosa. Ciononostante si tratta di un pizzico di socialismo in scala ridotta. Così come la maggior parte delle persone vivono anche a casa nella loro famiglia. La proprietà privata non svolge alcun ruolo. O vorremmo impedire a Wolfgang di bere dalla nostra tazza? A nessuno verrebbe mai in mente di organizzare il campeggio come un’economia di mercato. Altrimenti dovremmo compensare reciprocamente l’ «acquisto della verdura» con il «lavaggio dei piatti» o con l’«andare a pesca», cosa che non soltanto sarebbe alquanto difficile, ma anche abbastanza demenziale.

Perché non possiamo (o non vogliamo) organizzare il nostro grande mondo come un campeggio? Questo esperimento intellettuale vale perfino per coloro i quali (come l’autore di questo articolo) trovano le tende alquanto noiose, ma non negano il fascino dell’utopia socialista di uguaglianza, libertà e comunanza. Prendiamo in prestito l’esperimento intellettuale dal filosofo marxista G.A.Cohen (1941 – 2009): “Perché non tentiamo col socialismo”? si intitola il suo brillante saggio che è uscito ora in libreria, poco dopo la morte di Cohen.

Cohen ritiene sé stesso come “marxista non da scemenze” (“No Bullshit Marxist” chiamavano loro stessi i membri di un circolo di intellettuali che Cohen aveva fondato negli anni ’80). Certamente una ventina di anni il socialismo fa è andato pietosamente in rovina. Il fallimento effettivo non deve tuttavia travisarne l’idea analiticamente penetrante. Chi vuole esercitare di preferenza il proprio anticapitalismo sul Boni-Banker-Bashing [bonus dei dirigenti bancari]. può trovare tutto questo irrilevante. E chi non è seriamente interessato a una vita buona potrebbe essere deriso come un giocatore di biglie di vetro.

1. Il principio socialista
Non è nell’ordine [naturale] che qualcuno in situazione di povertà trovi molto più difficile diventare ricco, istruito e felice. Per [ottenere] questo egli non può infatti fare nulla. Perciò occorrono chance uguali per tutti, affinché diversità fortuite di nascita, ceto o reddito siano appianate. In questo vi sono differenti gradi di durezza. L’«uguaglianza di chance civile» rende liberi dalle barriere di condizioni sociali. Noi rifiutiamo il lavoro degli schiavi e le preferenze o gli svantaggi pubblici-giuridici (nel frattempo sovente anche di diritto privato) delle persone sulla base del colore della loro pelle.

L’«uguaglianza liberale di sinistra delle chance » va un passo oltre. Essa vuole risarcire la disuguaglianza sociale: già per tempo si deve avere cura dei bambini delle classi inferiori. Infine, si tratta di far sì che il destino delle persone dipenda soltanto dai loro talenti innati e dalle loro libere decisioni, e non dal background sociale.

L’«uguaglianza socialista delle chance» è più radicale. Essa vuole in più potenziare tutti i talenti innati. Che cosa può fare uno per i propri geni? Che può fare essendo meno scaltro del suo collega, che pure intasca uno stipendio più alto per la sua predisposizione? L’uguaglianza socialista delle chance compensa tutti questi svantaggi.

Eppure, prudenza. L’«uguaglianza socialista delle chance» non è livellamento. Le persone possono lavorare per più ore e guadagnare di più o avere più tempo libero e rinunciare al denaro. Questo porta a disparità che peraltro sono frutto di scelta. Ancor più: le persone possono anche scommettere o speculare e l’una ha fortuna, l’altra scalogna. Il socialismo illuminato tollera anche questo. Infatti non è paternalismo premuroso, che prescrive alle persone ciò che esse devono fare.

Troppa disparità d’altronde, anche se non si basa su privilegi, turba la comunità. Infatti comunità significa che le persone si occupano di prendersi cura l’una dell’altra – e proprio per «autentico» interesse e non per considerazioni opportunistiche. In una comunità non si può semplicemente vivere bene insieme se il vicino ha dieci volte di più. In altre parole: il socialismo compenserà le conseguenze di decisioni e condizioni personali più vantaggiose (pur senza livellarle totalmente), per mantenere la società in situazione di equità. Esso deve impedire, con rispetto dell’ideale di comunità, le disuguaglianze che dal punto di vista dell’uguaglianza delle chance potrebbe aver ammesso.

Perché il socialismo è superiore a una economia sociale di mercato, che anch’essa già punta alla redistribuzione? La risposta è semplice: in una comunità socialista le persone prendono parte reciprocamente all’interesse dell’altro. Anche nel capitalismo le persone sono rapportate le une alle altre, ma solamente perché dallo scambio si ripromettono un vantaggio per loro stesse e per i loro propri interessi. L’economia di mercato sfrutta l’impulso naturale dell’avidità e della paura. Questo mette in moto il processo dell’agiatezza. Il mercato obbliga le persone a essere le une al servizio delle altre: la cortesia per il cliente è motivata egoisticamente, perfino la condizione di socio di un’assicurazione lo è sulla reciprocità.

Può essere buono un ordinamento economico che fomenta l’avidità e fa uso della paura? Come già il cristianesimo, il socialismo sa che si deve domare gli impulsi e che su essi non potrebbe edificarsi alcun sistema economico.

2. Il socialismo è desiderabile?
La risposta suona: sì. Perché mai il principio del campeggio – fondato sull’eguaglianza delle chance e sul principio della comunità – non potrebbe essere l’ideale di un ordinamento economico mondiale? Chi contesta ciò deve giustificare i privilegi che risultano dai talenti innati e dai vantaggi sociali. Simili disuguaglianze, che non hanno nulla a che fare con la produttività di ognuno, cadono davanti al severo giudizio della giustizia.

In un’economia di mercato alla gente importa nulla del destino del contadino dal quale proviene la farina del pane ch’essa mangia. Nel socialismo essi si prendono cura l’uno dell’altro. Tuttavia non è una pretesa eccessiva che tutte le persone dovrebbero essere fratelli, altruisti che partecipano l’uno alla vita dell’altro? Questo però nessuno l’ha davvero preteso. È già sufficiente trattare qualcuno, con il quale ho un rapporto (di scambio), come se mi trovassi di fronte a un amico. Che “tutti gli uomini diventino fratelli” è l’idealismo di Schiller, ma non il socialismo.

3. Il socialismo è realizzabile?
Per prima cosa occorre eliminare un equivoco. Il nostro socialismo illuminato non ha nulla a che fare con l’economia di piano. Che i falliti esperimenti socialisti abbiano gestito ciò in altro modo è motivo sufficiente per dare in futuro forma diversa a tutto questo. Perché l’economia di piano ha portato alla gente povertà e servitù. Questo non è nell’ordine né economico né morale e non è conforme proprio per niente ai fini di una società che si basi sull’eguaglianza delle chance.

Spesso si può sentir dire che il socialismo sarebbe sì una buona idea, ma che la natura umana non è predisposta ad applicarlo. Le persone non sono magnanime e si comportano in modo non collaborativo. Tuttavia questo è esagerato. Il socialismo non necessita di alcun sovvertimento dei valori e neppure di una morale migliore. Anche nel socialismo la gente è libera di vivere secondo le sue (egoistiche) necessità: mette in atto comportamenti secondo scelte razionali, calcolando costi e benefici come si fa nel capitalismo. Soltanto che qui alle persone stanno a cuore non solo i vantaggi personali, ma anche il bene degli altri.

Il vero problema della trasposizione nel socialismo è una questione di tecnica e design. Da dove la comunità può distinguere e conoscere le sue esigenze e i beni e servizi di cui necessita, se non è in grado di imporsi alcun piano per attribuirsi bisogni autentici e se il meccanismo dei prezzi del mercato è fuori uso? Perché questo è appunto il vantaggio dei prezzi: essi apportano importanti informazioni su offerta e domanda e danno alle persone motivazioni, naturalmente mentre fanno uso del richiamo all’interesse individuale. Il socialismo non vuole pagare questo prezzo indecente.

E allora, da dove vengono le informazioni e le motivazioni nel socialismo? Questo punto rimane dolente. Sarebbe concepibile mantenere il meccanismo del mercato, ma gravare radicalmente di contribuzioni i risultati economici: quindi una sorta di economia di mercato socialista. Eppure lo stato assistenziale ampliato vi è già (quasi) arrivato. Ancora più radicale sarebbe un socialismo di mercato che eliminasse la proprietà privata e distribuisca a tutti i cittadini azioni popolari: una proprietà collettiva, che le persone trattini, ma che non permetta mai loro di fare soldi.

Da aggiungere: tutte le proposte tecniche per la trasformazione del socialismo comportano grandi difficoltà. Eppure si deve per questo rinunciare allo scopo e accettare un mondo di distribuzione iniqua? Un mondo che si fonda sull’avidità e la paura? Così chiede l’agnostico, maledice il capitalismo e resta fedele al socialismo. Nonostante tutto.

Testo originale:

Frankfurter Allgemeine Zeitung, den 20. Dezember 2009
Gleichheit, Freiheit und Gemeinschaftlichkeit
Der Sozialismus ist gar nicht so übel

Von Rainer Hank

Sozialistische Idylle: Wer kümmert sich da schon um Mein oder Dein?

20. Dezember 2009 – Lassen Sie uns einen Camping-Urlaub im Freundeskreis planen. Alle wollen wir ein paar Tage Spaß haben, jeder soll machen, wozu er Lust verspürt. Gemeinsam teilen wir die Arbeiten – Einkaufen, Kochen, Abspülen –, jeder soll seinen Teil zum Gelingen des Ganzen beisteuern. Hierarchien unserer alltäglichen Arbeitswelt (Fred hat Karriere gemacht und ziemlich viel Geld verdient, Wolfgang ist gescheitert) zählen während der Tage nicht.

Unser Zeltlager ist eine Welt der Gleichheit und guten Gemeinschaft. Das heißt nicht, dass alle immer dasselbe machen oder bekommen. Trotzdem ist es ein bisschen Sozialismus im Kleinen. So wie die meisten Menschen auch zu Hause in ihren Familien leben. Privateigentum spielt hier keine Rolle: Oder wollten wir Wolfgang verwehren, aus unserer Tasse zu trinken? Das Zeltlager wie eine Marktwirtschaft zu organisieren käme niemandem in den Sinn. Sonst müssten wir untereinander „Gemüse einkaufen“ mit „Teller abwaschen“ oder „Fische fangen“ verrechnen, was nicht nur ziemlich schwierig, sondern auch ziemlich schwachsinnig wäre.

Warum können (oder wollen) wir unsere große Welt nicht wie ein Zeltlager organisieren? Dieses Gedankenexperiment lohnt selbst für jene, die (wie der Autor dieses Artikels) Zelten ziemlich doof finden, aber der sozialistischen Utopie von Gleichheit, Freiheit und Gemeinschaftlichkeit die Faszination nicht absprechen. Das intellektuelle Experiment borgen wir uns von dem marxistischen Sozialphilosophen G.A.Cohen (1941 bis 2009): „Warum versuchen wir es nicht mit dem Sozialismus?“ heißt sein brillanter Essay, der jetzt, kurz nach Cohens frühem Tod, erschienen ist.

Cohen versteht sich als „No Bullshit Marxist“ (so nannten sich die Mitglieder eines Intellektuellenzirkels, den Cohen in den achtziger Jahren gegründet hat). Zwar ist der Sozialismus vor zwanzig Jahren kläglich zugrunde gegangen. Der faktische Bankrott muss aber nicht die analytisch scharfe Idee falsifizieren. Das alles mag unerheblich finden, wer seinen Antikapitalismus lieber beim Boni-Banker-Bashing pflegen will. Und es mag als Glasperlenspiel verspotten, wer nicht ernsthaft an einem guten Leben interessiert ist.

1. Das sozialistische Prinzip

Es ist nicht in Ordnung, dass jemand aus armen Verhältnissen es viel schwerer hat, reich, gebildet und glücklich zu werden. Dafür kann er nämlich nichts. Deshalb braucht es gleiche Chancen für alle, damit die zufälligen Unterschiede von Herkunft, Schicht oder Einkommen eingeebnet werden. Dabei gibt es unterschiedliche Härtegrade. Die „bürgerliche Chancengleichheit“ befreit von Statusschranken. Wir verbieten Sklavenarbeit und die öffentlich-rechtliche (inzwischen häufig auch privatrechtliche) Bevorzugung oder Benachteiligung von Menschen aufgrund ihrer Hautfarbe.

Die „linksliberale Chancengleichheit“ geht einen Schritt weiter. Sie will für die soziale Ungleichheit entschädigen: Schon früh sollen etwa Kinder aus der Unterschicht besonders betreut werden. Letztlich geht es darum, dass das Schicksal der Menschen nur von ihren angeborenen Talenten und ihrer freien Entscheidung, nicht aber vom sozialen Background abhängt.

Die „sozialistische Chancengleichheit“ ist radikaler. Sie will zusätzlich alle angeborenen Talente einebnen. Was kann einer schon für seine Gene? Was kann er dafür, weniger schlau zu sein als sein Kollege, der für seine Begabung aber ein höheres Gehalt einstreicht? Die sozialistische Chancengleichheit gleicht all diese Nachteile aus.

Doch Vorsicht: Die „sozialistische Gleichheit“ ist keine Gleichmacherei. Die Menschen können mehr Stunden arbeiten und mehr verdienen oder mehr Freizeit machen und auf Geld verzichten. Das führt zu Ungleichheiten, welche selbst gewählt sind. Mehr noch: Sie können auch wetten oder spekulieren, und der eine hat Glück, der andere Pech. Auch das toleriert dieser aufgeklärte Sozialismus. Denn er ist kein fürsorglicher Paternalismus, der den Menschen vorschreibt, was sie tun sollen.

Allzu viel Ungleichheit allerdings, selbst wenn sie nicht auf Privilegien beruht, stört die Gemeinschaft. Denn Gemeinschaft bedeutet, dass Menschen Anteil nehmen aneinander, dass sie füreinander sorgen – und zwar aus „echtem“ Interesse und nicht aus opportunistischen Erwägungen. In einer Gemeinschaft kann man einfach nicht gut zusammenleben, wenn der Nachbar zehnmal so viel hat. Mit anderen Worten: Der Sozialismus wird die Folgen günstiger persönlicher Entscheidungen und Umstände umverteilen (ohne sie ganz einzuebnen), um die Gesellschaft beieinanderzuhalten. Er muss mit Rücksicht auf das Gemeinschaftsideal Ungleichheiten verbieten, die er vom Standpunkt der Chancengleichheit her zugelassen hätte.

Warum ist der Sozialismus einer sozialen Marktwirtschaft überlegen, die ja auch auf Umverteilung setzt? Die Antwort ist einfach: In einer sozialistischen Gemeinschaft nehmen die Menschen um des anderen willen aneinander Anteil. Im Kapitalismus sind die Menschen auch aufeinander bezogen, aber nur, weil sie sich vom Austausch einen Vorteil für sich selbst und ihre eigenen Interessen versprechen. Die Marktwirtschaft nutzt die natürlichen Triebe der Gier und Angst. Das bringt den Wohlstandsprozess in Gang. Der Markt zwingt die Menschen, einander zu Diensten zu sein: Kundenfreundlichkeit ist egoistisch motiviert, selbst die Mitgliedschaft in einer Versicherung auf Gegenseitigkeit ist es.

Eine Wirtschaftsordnung soll gut sein, die die Gier befeuert und die Angst braucht? Wie das Christentum weiß der Sozialismus, dass man die Triebe zähmen muss und darauf kein Wirtschaftssystem bauen sollte.

2. Ist der Sozialismus wünschenswert?

Ja, lautet die Antwort. Warum sollte das Prinzip Zeltlager – beruhend auf Chancengleichheit und Gemeinschaft – nicht als Ideal einer Weltwirtschaftsordnung taugen? Wer das bestreitet, muss Privilegien rechtfertigen, die sich aus angeborenen Talenten und sozialen Vorteilen ergeben. Solche Ungleichheiten, die mit eigener Leistung nichts zu tun haben, verfallen vor dem scharfen Urteil der Gerechtigkeit.

In einer Marktwirtschaft ist den Leuten das Schicksal des Bauern einerlei, von dem das Mehl ihres Brotes stammt. Im Sozialismus kümmern sie sich umeinander. Doch ist es nicht eine überfordernde Zumutung, dass alle Menschen Brüder sein sollen, selbstlos aneinander Anteil nehmend? Das freilich hat gar niemand verlangt. Es reicht schon aus, jedermann, mit dem ich eine (Tausch-)Beziehung eingehe, so zu behandeln, wie es sich einem Freund gegenüber gehört. Dass „alle Menschen Brüder werden“, ist Schillers Idealismus, aber nicht Sozialismus.

3. Ist der Sozialismus machbar?

Zunächst gilt es, ein Missverständnis auszuräumen. Mit Planwirtschaft hat unser aufgeklärter Sozialismus nichts zu tun. Dass die gescheiterten sozialistischen Experimente dies anders handhabten, ist Grund genug, es künftig anders zu gestalten. Denn Planwirtschaft brachte den Menschen Armut und Unfreiheit. Das ist weder ökonomisch noch moralisch in Ordnung und entspricht ganz und gar nicht dem Ziel einer auf Chancengleichheit basierenden Gemeinschaft.

Häufig ist zu hören, der Sozialismus sei zwar eine gute Idee, doch die menschliche Natur sei dafür nicht geschaffen. Menschen seien nicht großherzig und verhielten sich nicht kooperativ. Doch das ist übertrieben. Der Sozialismus braucht keine Umwertung aller Werte oder gar eine bessere Moral. Auch im Sozialismus sind die Menschen frei, nach ihren (egoistischen) Bedürfnissen zu leben: Sie vollziehen rationale Wahlhandlungen, bei denen sie Kosten und Nutzen kalkulieren wie im Kapitalismus auch. Allein: Es geht ihnen nicht nur um den persönlichen Nutzen, sondern auch um das Wohl des anderen.

Das eigentliche Problem der Umsetzung des Sozialismus ist eine Frage von Technik und Design. Woher soll die Gemeinschaft ihre Bedürfnisse kennen und wissen, welche Güter und Dienstleistungen sie braucht, wenn kein Plan sich anmaßen soll, die wahren Bedürfnisse zu oktroyieren und der Preismechanismus des Marktes außer Kraft gesetzt ist? Denn das ist gerade der Vorteil der Preise: Sie bringen wichtige Informationen für Anbieter und Nachfrage und motivieren die Leute, freilich indem sie sich des Appells an das Einzelinteresse bedienen. Diesen unanständigen Preis will der Sozialismus nicht zahlen.

Doch woher kommen die Information und die Motivation im Sozialismus? Dieser Punkt bleibt wund. Denkbar wäre es, den Marktmechanismus beizubehalten, aber die wirtschaftlichen Ergebnisse radikal zu besteuern: eine Art sozialistischer Marktwirtschaft also. Doch (fast) so weit ist der ausgebaute Wohlfahrtsstaat auch schon. Radikaler noch wäre ein Marktsozialismus, der das Privateigentum abschafft und an alle Bürger Volksaktien austeilt: ein Kollektiveigentum, das die Menschen zwar handeln, aber niemals zu Geld machen dürfen.

Zugegeben: Alle technischen Vorschläge zur Umsetzung des Sozialismus haben große Haken. Doch soll dafür das Ziel aufgegeben und eine Welt ungerechter Verteilung in Kauf genommen werden? Eine Welt, die auf Gier und Angst beruht? So fragt der Agnostiker, verdammt den Kapitalismus und bleibt dem Sozialismus treu. Trotz allem.

Frankfurter Allgemeine Zeitung, 20 dicembre 2009

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