UNA DIVERSA REALTA’

Questa volta scriviamo di giovani. Il problema del loro inserimento nel mondo del lavoro è sempre stato, per sua natura, complesso. Ora in modo particolare. Analizzare le cause che hanno portato ad una tale realtà non sono, sicuramente, semplici, ma non impossibili. Le statistiche ufficiali relative al corrente anno vedono 800.000 giovani, in parte qualificati, alla ricerca di una prima occupazione. Anche qualsiasi. Basta lavorare. Se a questa significativa cifra si aggiungono i diplomati e laureati non ancora censiti, la situazione si presenta in tutta la sua complessa gravità. Sembra di vivere in un altro mondo; ben il 18% della gioventù italiana ( 18/26 anni) è disoccupata o, ma il male non è minore, non è ancora riuscita a trovare un posto di lavoro degno di tale nome. Le problematiche correlate alla disoccupazione in generale, ed a quella giovanile in particolare, sono da ricercare anche nella nostra incerta espansione industriale. Ma altresì ad una scarsa conoscenza delle strutture atte a convogliare, in modo meno dispersivo, il binomio offerta/richiesta di lavoro. La questione, che viene da lontano, ha le sue radici politiche in una condizione d’avviamento al lavoro assai carente. Soprattutto, non esiste una specifica normativa che consente in modo univoco il rapporto occupazionale della classe giovanile. Anche per questo motivo, che consideriamo fortemente in negativo, c’è da promuovere un progetto di riqualificazione di chi, nonostante i titoli e la buona volontà, non riesce ad inserirsi nel mondo produttivo. Quindi, almeno per il prossimo futuro, si dovrà tener conto delle richieste di manodopera da parte delle aziende a carattere industriale o artigianale in modo da riorganizzare i cicli occupazionali. Non riteniamo che sia possibile percorrere altra via. Ne consegue che questa finalità, altamente sociale, dovrebbe essere affidata a strutture idonee allo scopo che oggi, molto obiettivamente, non ci sono. I Centri per l’Impiego, nati vecchi, fanno quello che possono. Il mercato del lavoro, anche a livello locale, è troppo complesso per trovare un’organica accoglienza in strutture che hanno oggettive difficoltà d’autogestione. Ci si dovrebbe indirizzare verso corsi di formazione, gestiti direttamente dalle aziende con riferimento alle loro necessità occupazionali a media scadenza. Appare, infatti, inutile preparare maestranze molto qualificate per attività che le realtà del territorio ove sono curate non sono in grado d’assorbire. Ipotizziamo, invece, delle prove selettive aziendali. Alla fine dei corsi di formazione, chi supererà le prove d’esame ( da reperire tra i cicli produttivi della struttura organizzatrice ) sarà direttamente assunto o, altrimenti, entrerà in una lista di qualificati da utilizzare in seguito o da immettere in altre realtà produttive similari. Insomma, la scuola non è più in grado di garantire un lavoro. I diplomati disoccupati non si contano più e la stessa sorte già si estende ai laureati; soprattutto in discipline umanistiche. Tenuto conto che i problemi dell’occupazione hanno anche loro risvolti in UE, riteniamo indispensabile non tanto continuare nelle riforme della scuola superiore e dell’università, ma cercare di focalizzare nuove strategie operative sul fronte del lavoro. Qui, pubblico e privato non dovrebbe essere diverso. L’occupazione dipende dalle necessità delle nostre sequenze produttive; oltre che dalla formazione delle maestranze necessarie per portarle avanti. Il binomio scuola e lavoro ha da essere integrato. In caso contrario, come già sta accadendo, la disoccupazione potrebbe anche aggravarsi. Il nostro Paese non se lo può permettere.

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