Dalla parte di Eva

di Vittorio Lussana

Da sempre, il ruolo sociale della donna è quello di dover vivere una vita di sacrifici. Ciò è fatto immanente soprattutto nei sistemi culturali e valoriali imperniati sulle religioni, tanto da far apparire ancora oggi assai poco stravagante che gli incitatori ai sacrifici siano gli uomini, mentre le esecutrici materiali di questi debbano essere sempre e solamente le donne. In esse, il moralismo religioso ha storicamente inculcato che sarebbe peculiarità femminile quella di essere sempre disposte a immolarsi. Che gli uomini amino farsi amare e servire e che, per interi secoli, abbiano messo in testa alle donne che ciò sia loro precipuo compito, rimane il dato culturale di fondo di una concezione maschilista e patriarcale bisognosa di sudditi, poiché educare le donne al fine di servirsene, da sempre rappresenta il naturale privilegio dei dominatori: cose da ‘maschi’, insomma. In tutte le società organizzate socialmente sulle religioni si trovano solo varianti e sottospecie di tali principi. Ma si tratta di variazioni meschine, poiché in realtà non vi è nessuna reale presa di distanza rispetto allo spirito multisecolare che da sempre caratterizza il difficile rapporto tra le donne e le religioni. Se si continua a non vedere di buon occhio dei seni scoperti o delle gonne troppo corte, ciò avviene in quanto il fideismo irrazionalista non riesce proprio a distaccarsi, né a distinguersi, dal mondo e che, al contrario, non faccia altro che ribadire il modello maschilista di questo. La morale cattolica, nello specifico, in ciò non si eleva affatto al di sopra delle altre: il suo Dio si comporta esattamente come gli viene richiesto. “Alla donna l’Eterno disse: io moltiplicherò grandemente le tue pene. Tu partorirai con dolore e i tuoi desideri si volgeranno verso il tuo uomo, che dominerà su di te” (Genesi 3,16). Le parole di un Dio creato apposta per addossare la concupiscenza tutta intera alle donne sono tipiche di quasi tutte le religioni. Ma si tratta di costruzioni ingannevoli, che stravolgono la realtà. Chi genera veramente la libidine? Chi legittima concretamente i rapporti di possesso tra uomo e donna? Ogni qual volta Dio ha aperto bocca, Eva ha sempre saputo bene cosa la attendeva poiché, sin dai tempi più antichi, i patriarchi di tutte le religioni hanno sempre saputo tenere in piedi, senza crepe, le proprie rispettive tradizioni. Il Vaticano, ancora nel 1988, sentenziava espressamente sulla “dignità e la vocazione della donna”, facendo diretto riferimento ad essa unicamente come “moglie e madre ubbidiente, succube dell’uomo per fondamentale retaggio dell’umanità”, ovvero come fatto voluto da Dio, che pare non vedere di buon occhio una donna indipendente, impegnata in un’attività lavorativa qualsiasi, magari di natura dirigenziale. La Riforma protestante, per parte sua, liberò le suore dai loro voti, controllando tuttavia severamente che esse divenissero brave ‘donnette’ di casa, docili e mute. Lutero in persona definì l’uomo “superiore e migliore” e la donna “un mezzo bambino, un animale pazzo”. Questo monaco, mentalmente non del tutto ‘registrato’, parlò con l’animo e il lessico più tipico del proprio sesso, predicando come “massimo onore della donna mettere al mondo figli maschi”. Ma anche Giovanni Paolo II, nel 1996, si è richiamato all’apostolo Paolo utilizzando una tra le innumerevoli frasi più misogine del celebre santo dispregiatore della femminilità: “La donna impari in silenzio, con sottomissione. Non sia permesso ad essa di insegnare, né di usare autorità sul marito, perché Adamo fu formato per primo, poi venne Eva. E Adamo non fu sedotto, bensì la donna, la quale cadde in tentazione. Nondimeno, essa sarà salvata partorendo figlioli e perseverando nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”. Così parlò San Paolo: che le donne sappiano, una volta e per sempre, cosa debbono o non debbono fare. L’intera storia della misoginia fideista dimostra pienamente che le volontà delle religioni non hanno nemmeno bisogno di trasformarsi. I capisaldi rimangono univoci, le definizioni dei ruoli sociali immutabilmente stabiliti nel tempo. Nel corso del cammino dell’intera umanità, allorquando la predicazione iniziò a non dare più frutti, si iniziò dunque a far ricorso al mezzo, non meno collaudato, della violenza: innumerevoli furono le donne che, denunciate come ‘streghe’, dovettero morire perché così vollero gli annunciatori tracotanti della parola di Dio. Fintantoché le religioni, prese nel loro complesso di ammorbante orientalismo ‘cumulativo’, avranno potere sugli animi, gli uomini la faranno sempre pagare alle donne, mantenendole in una condizione di subalternità. Il ‘Maglio delle streghe’ fu pubblicato nel 1487 ed ebbe la benedizione di un Papa. Esso venne divulgato in tutto il mondo come autorevole documento della Chiesa e, in tutte le sue edizioni (una trentina), è perennemente rimasta inclusa una ‘bolla’ che incita espressamente all’uccisione delle donne. Contro di essa, per più di 200 anni non vi è stato uno ‘straccio’ di Pontefice disposto a spendere una parola in senso contrario. E le donne dovettero subire penosi interrogatori o essere oggetto di invereconde investigazioni da parte dei religiosi. Essi estorsero confessioni utilizzando la tortura, unitamente ad altre innumerevoli sconcezze. L’occidente cristiano si è concesso migliaia di carnefici che mai si stancavano di esaminare sui corpi delle donne la loro appartenenza a Satana. Nell’anno 1485, solamente a Como vennero arse vive 41 presunte ‘streghe’ dopo alcuni processi sommari. Ma le donne, come anche dichiarato nel protocollo di un processo del XIV secolo “non possono che lasciarsi conciliare con la Chiesa, senza tuttavia impedire di essere consegnate al potere temporale, che provvederà alle pene richieste”. Il Concilio di Trento (1545 – 1563) fruttò nuovi importanti dogmi per reagire allo scisma ‘luterano’ senza spendere una sola parola sullo sterminio degli eretici, degli ebrei e delle donne. E i roghi che da quel Concilio discesero non destano, oggi, alcun interesse storiografico. Eppure, quella strage, protrattasi nei secoli, non ha riguardato solamente alcuni casi isolati di peccatrici, bensì fu una vera e propria dottrina papale. Si pose fine alle uccisioni solo dopo che si imposero voci provenienti dall’esterno della Chiesa, la quale si è sempre giustificata attribuendo le proprie ‘malefatte’ alla volontà di Dio. Perché il suo Dio è un Dio ubbidiente, che asseconda docilmente lo spirito dei tempi. E oggi? Oggi va di moda il ‘cicaleggio apologetico’ degli epigoni, che si traggono d’impaccio attraverso le omissioni al fine di far dimenticare la realtà storica delle persecuzioni. Oggi, la teologia cattolica preferisce arrovellarsi sull’esistenza materiale di Satana, il quale astutamente seduce gli uomini per mezzo del razionalismo e del relativismo in una sorta di ‘diabolico adescamento’: siamo veramente di fronte al bue che dà del ‘cornuto’ all’asino. In tutto questo, impossibile non evidenziare la millenaria paura degli uomini nei confronti delle donne, un terrore che ha generato una violenza nuda e cruda, che ha portato teologi come Alberto Magno a definirle degli “esseri difettosi”, mentre San Tommaso d’Aquino, dottore supremo della Chiesa e delle sue ‘corbellerie’, si è limitato a considerarle “degli uomini mal riusciti, delle persone a cui manca qualcosa per realizzare la più autentica natura umana”. Persino l’agostiniana Civitas Dei, uno dei libri fondamentali della cultura occidentale, si lascia andare al delirio di un paradiso senza peccato, poiché ne rimane estranea la passione del sesso. Perché la verità di fondo delle tradizioni religiose nei confronti delle donne, anche di quella cattolica, è sempre stata la stessa: esse possono salvarsi dalla propria reputazione di prostitute solamente presentandosi come verginali fidanzate, come fedeli consorti o in quanto madri di molti bambini. Venendo all’oggi, la verità va detta per quello che è: certe strombazzanti campagne per la sicurezza sono rivolte, per lo più, ad uno ‘zoccolo duro’ di cittadini impregnati di cattolicesimo ‘familista’, i quali non hanno ancora del tutto digerito svolte di modernizzazione e di civiltà come ad esempio il divorzio, che rifiutano ogni legalizzazione delle coppie di fatto e che, di fronte a temi come quelli dell’omosessualità, della fecondazione assistita, della ricerca scientifica a fini terapeutici o del testamento biologico, desiderano solamente volgere il proprio sguardo da un’altra parte. In generale, del tema della violenza sulle donne se ne parla sempre al fine di sdegnarsi per le gravissime conseguenze che si leggono sulle pagine di cronaca, senza tuttavia sfiorare minimamente le cause più autentiche del problema, che non discendono soltanto da una sostanziale assenza delle forze di Polizia nelle grandi periferie urbane, bensì – se non soprattutto – da una cultura di massa ancora fondamentalmente maschilista e discriminatoria nei riguardi dell’intero genere femminile. Certamente, generano clamore, ogni tanto, le notizie di una qualche ragazza stuprata da un ‘branco’ di vigliacchi. Ma alla fine, ciò serve soprattutto a nascondere un dato di fatto ben preciso: che la maggior parte delle violenze sulle donne, sia materiali, sia psicologiche, trovano il loro terreno più fertile, il proprio ‘habitat’ più comune, tra le mura domestiche, ovvero nella tanto decantata famiglia, che personalmente considero un mero ‘involucro’ di infelicità. Studiare più a fondo il tema dell’attualizzazione di una più moderna cultura della famiglia, di un suo allontanamento rispetto a certe apologie di stampo ‘tardo – ideologico’, di un allargamento della sua stessa base sociale, di una sua maggiore ‘apertura sociologica’ nei confronti del mondo esterno, insieme a quello dell’approfondimento del nuovo ruolo che le donne stanno assumendo in una società ormai in via di definitiva secolarizzazione, vengono tutte considerate questioni da intellettuali ‘radical – chich’, obiezioni giudicate con fastidio e regolarmente sottoposte alle lenti di ingrandimento dei giudizi più moralistici o dei più odiosi pregiudizi. La difficile condizione delle donne italiane, in particolare, discende principalmente da gravissime arretratezze culturali. Questo è argomento che possiede persino una propria connotazione territoriale, anche nei gruppi sociali più aperti e progressisti. Nella cultura degli italiani del Mezzogiorno, ad esempio, permane una visione sostanzialmente conservatrice nei confronti delle donne e della conduzione della famiglia: i siciliani rimangono appiccicosamente gelosi e patriarcali; i campani difendono il proprio nucleo familiare in quanto ‘isola’ di rifugio della propria incapacità di organizzarsi in forme autonome; i pugliesi vivono l’ambiente familiare come luogo in cui perpetuare un tradizionalismo portato ad eccessi ‘autistici’; i calabresi, in forme variamente ‘affettate’, considerano la donna alla stessa stregua di uno stravagante animale domestico. Nel centro e nel nord del Paese l’analisi si differenzia: nelle città più grandi si vive una fase sostanzialmente ‘primordiale’ di una nuova socialità più libera e aperta, ma nelle province più piccole vigono ancor’oggi retaggi atavici, ritualisti, che rendono il possesso dei beni materiali – e quindi anche delle donne – obiettivo primario dell’esistenza stessa. Insomma, sia nelle famiglie più aperte, sia in quelle più tradizionalmente conservatrici impera uno strano ‘familismo all’italiana’ che si rifiuta di assumere determinati elementi di riflessione critica nei confronti del proprio modo di vivere, della propria mentalità, dei propri comportamenti sociali, utilizzando altresì i più angoscianti e severi pregiudizi per giudicare il prossimo. Ma quanta bella carità cristiana! Anche i rivoluzionari più estremi, alla fin fine non si rivelano altro che dei moralisti pronti a soffocare ogni questione di libertà individuale, rilasciando volgari patenti di ‘libertinismo’ alla prima ragazza che decide di separarsi dal marito per evidenti ragioni di incompatibilità caratteriale o, addirittura, per sfuggire a violenze e umiliazioni quotidiane. Viceversa, nelle famiglie a forte stampo ‘cattolico integrista’ vige il più netto rifiuto a mutare, o quantomeno a ‘mutuare’, ogni regola di convivenza civile, al fine di rifugiarsi nel più ‘sordo’ dei ripiegamenti egoistici. Essere donne è particolarmente difficile, in Italia: questa è la verità. Rimane fuor di ogni discussione che non viviamo all’interno di un ‘brodo culturale’ paragonabile a quello del mondo islamico più fondamentalista. Tuttavia, non ne siamo nemmeno troppo lontani. La cappa soffocante di convenzioni e di comportamenti che vige nella cultura di fondo di questo Paese è ciò che impedisce ogni presa di coscienza su come si stiano ottenendo risultati assolutamente opposti rispetto a quelli desiderati: si continua a rifiutare ogni forma di innovazione, distaccandosi dalle questioni poste da una società che avanza inequivocabilmente, rafforzando altresì impulsi e tendenze ‘generaliste’ che finiscono col diventare la vera linfa vitale della trasgressività più violenta ed eversiva. Il centrodestra italiano, nel suo utilitarismo opportunistico, sostanzialmente strumentalizza tali problematiche per evidenti interessi di natura elettorale. Ma il centrosinistra, che dovrebbe possedere strumenti culturali più adatti ad affrontare con maggiore attenzione e sensibilità questo genere di questioni, sembra intenzionato a lasciare per strada proprio tali qualità, al fine di inseguire – e poi un giorno rappresentare – l’ipocrisia di fondo del ‘moderatismo qualunquista’ italiano. Tutto ciò diviene, come ho già scritto in altre occasioni, la causa primaria di una gravissima caduta di valori e di una deriva utilitaristica che sta ormai imperversando, senza freno alcuno, nella nostra società.(Laici.it)

(articolo tratto dal web magazine www.periodicoitaliano.info)

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