di Errico Centofanti *
In cima a una collina, sulla linea di confine tra Francavilla e Pescara, hanno impiantato gli spalti e il palcoscenico di un teatro all’aperto per mettervi in scena “Le Troiane” di Euripide nella fascinosa interpretazione diretta da Claudio Di Scanno. Lo spettacolo, prodotto da Drammateatro, che è la miglior formazione attualmente attiva in Abruzzo, è bellissimo e chiunque ne avesse la possibilità farebbe bene a non lasciarselo sfuggire. Per chi vive all’Aquila o, piú precisamente, accanto a quel che ne resta, dovrebbe trattarsi di un momento d’evasione dalla tragica quotidianità in atto dopo il terremoto del 6 Aprile.
All’Aquila, da quasi tre mesi, in ambito domestico o lavorativo o in qualsiasi altro, non c’è una sola conversazione che non ruoti intorno al terremoto. Sebbene governanti e mass-media veicolino rappresentazioni trionfalmente rassicuranti, la realtà di ogni giorno, le prospettive e le coscienze sono tutt’altro che normalizzate. Il trauma del 6 Aprile e le sue conseguenze intridono e condizionano, senza scampo, la vita quotidiana di tutti. Si vorrebbe, ogni tanto, non star lí a rimuginare sui morti, sui crolli e sul profluvio di speranze cessanti e disillusioni emergenti. Tornare a teatro, dopo tanto tempo, avrebbe potuto aiutare a “staccare la spina”, almeno per un po’. È andata diversamente. Perché, ovviamente, il teatro, prima ancora che per sviluppare emozioni estetiche, è fatto per eccitare gli spettatori alla riflessione, a riflettere su se stessi e sul proprio ruolo nel seno della comunità.
Come accade per qualsiasi opera d’arte, le motivazioni e le intenzioni dei drammaturghi e degli artisti che reinventano scenicamente i copioni non compongono mai strutture rigide, che in loro stesse trovino ragione e definizione, ma creano sistemi di pensiero aperti e flessibili, dai quali la sensibilità di ciascuno può e deve trarre materia per liberare i propri flussi ragionativi. Il testo di Euripide racconta una storia già allora antichissima, cioè il crudele dopo-guerra imposto dai greci ai troiani, ma in realtà intende suscitare l’indignazione dei propri concittadini a fronte delle analoghe tragiche crudeltà appena perpetrate nell’isola di Melo. Claudio Di Scanno focalizza la sua messinscena sulla tragedia della deportazione delle donne troiane, tratteggiandola in modo da farne la metafora di quella sconfitta della civiltà che sono le deportazioni a noi contemporanee, a cominciare da quelle di matrice nazista. Tra gli spettatori c’è chi, recando dentro di sé il prima il durante e il dopo del terremoto, s’ingegna a interagire con lo spettacolo facendone, inevitabilmente, “Le Troiane” nell’epoca della loro riproducibilità sismica.
È fin dalle prime battute, quando Poseidone dice «addio, città che un giorno fosti felice; addio,bella cerchia di torri», che la tragedia del dopo-guerra troiano comincia a trascolorare in metafora del dopo-terremoto aquilano. Piú tardi, Ecuba, superlativamente impersonata da Susanna Costaglione, mentre dal trono regale va precipitando nella deportazione in terra straniera, dirà, davanti le mura abbattute di Troia: «il tuo gran nome perderai presto; distrutta, tu cadi; e noi strappano schiave dalla patria». Stanno qui gli aspetti piú terribili del dopo-terremoto aquilano: la gravissima (e probabilmente irrimediabile) distruzione del centro storico e la diaspora (quasi certamente definitiva) imposta a tutti i suoi abitanti.
A guardarla di notte, dalle montagne d’intorno, la città vuota e blindata dall’Esercito è un buco nero incorniciato dal tratteggio a ranghi ridotti dell’illuminazione pubblica delle periferie, anch’esse disabitate, e dall’arcipelago delle tendopoli irrorate da luci spettrali. Di giorno, lì dentro, si mettono in sicurezza chiese e palazzi importanti (ma non le migliaia di edifici minori non abbattuti dalla grande scossa, tutti abbandonati al definitivo sbriciolamento assicurato dalle piogge e dalle decine di scosse minori che ogni giorno sopraggiungono). Di giorno, lì dentro, come formichine operose, gli abitanti delle case non eccessivamente pericolanti, scortati dai Vigili del Fuoco, compiono rapide incursioni per recuperare quanto possibile di vestiti, documenti e utensili domestici. Da lí dentro, le attività istituzionali, economiche e culturali sono state disperse ai quattro venti e quelle che un giorno potessero rientrare non disporrebbero di strutture e utenti sufficienti per giustificarle e alimentarle. Questa è la seconda distruzione della città, dopo quella decretata dal terremoto.
Le decine di migliaia di sfollati sopravvivono nell’estrema scomodità degli attendamenti oppure negli alberghi sulla costa o negli alloggi di fortuna concessi da amici e parenti. Per loro, la smodata sovrabbondanza di cibo, abbigliamento e coperte, profusa nelle prime settimane dall’ondata della solidarietà, decade velocemente in carità pelosa e sempre piú tirchia. In presenza di un centro storico tra i più vasti e pregiati d’Italia, bisognava puntare al rifacimento della città, il che è cosa richiedente anni e anni, e perciò sarebbe stato necessario apprestare case provvisorie, capaci di far sparire rapidamente le disagiatissime tendopoli e le dispendiose ospitalità alberghiere. Invece, si è scelto un faraonico programma che sta facendo sorgere 20 villaggi-dormitorio, disseminati tra boschi e campagne, nei quali si promette di alloggiare prima dell’inverno 15.000 persone. Ne scaturirà una vergognosa guerra tra poveri, perché i senzatetto sono parecchie migliaia di più, e ne scaturirà la scellerata frammentazione della comunità. Questa è la via per disarticolare la comunità, ridurla a un ammasso informe di egoismi svuotati di valori e refrattari alle regole. È la via che, come diceva Tocqueville, «non spezza le volontà, ma le ammorbidisce, le piega e le dirige». Vuol essere una sorta di prova generale di quel “dispotismo morbido” che, invece di soggiogare i cittadini con il terrore, riduce tutti a sudditi mediante l’anestesia delle coscienze, la diseducazione culturale e civica e la pratica sistematica del clientelismo e dell’elargizione di elemosine?
Alla diaspora verso i nuovi 20 villaggi-dormitorio si sommerà quella di coloro che hanno già scelto o dovranno scegliere l’emigrazione verso altri luoghi, d’Abruzzo o di chissà dove. E allora, come Claudio Di Scanno la riconosce per “Le Troiane”, quella aquilana è la «tragedia dello sradicamento, del vuoto di prospettiva, del viaggio del non ritorno». Uno dei momenti piú raggelanti del copione di Euripide arriva con il martirio di Astianatte, il bambino di Ettore e Andromaca che, in quanto erede del trono troiano, potrebbe in futuro costituire una minaccia per il potere greco. Davanti il corpicino dell’ucciso, Ecuba pronuncia una delle piú celebri espressioni della storia del teatro: «Cosa si potrebbe scrivere sulla tua tomba? “Avevano paura di questo bambino e perciò lo hanno ucciso”. Un epitaffio a eterna vergogna dei greci». E la distruzione della comunità aquilana sarà l’epitaffio a eterna vergogna di chi l’ha voluta.
Tuttavia, vorremmo non disperare. Walter Benjamin ce lo ha insegnato: il passato, fatto di “rovine su rovine”, è cosí orrendo da esercitare, su chi sa voltarsi a guardarlo, un impulso irresistibile verso l’impegno a costruire un futuro diverso e migliore.
(Nota biografica a cura di Goffredo Palmerini)
(*) Errico Centofanti, giornalista e scrittore, è stato uno dei fondatori del Teatro Stabile dell’Aquila, che poi ha diretto per vent’anni. Autore di numerosi libri di ambientazione storico-letteraria, è stato direttore artistico dei festivals “La Perdonanza” dell’Aquila, “Rinascimenti” di Urbino, “Castel dei Mondi” di Andria e “Le Stelle della Grangia” dell’Abbazia di Fossanova nonché del settore spettacolo per il Settembre Dantesco di Ravenna. In occasione del tricentenario del sisma che aveva distrutto la città nel 1703, ha pubblicato il volume “La Festa Crudele”, che è un’ampia riflessione di antropologia culturale sui terremoti dell’Aquila e le loro conseguenze.