Italianità ?

di ROMANO MARTINELLI

“Stivale che puzza.” Nome dato all’Italia in un recente articolo pubblicato in Germania da un nordamericano.

“Puzzo di bruciato”. Dicono di sentirlo certi espatriati a guardare l’andazzo dello Stivale nei confronti degli emigrati.

Assonanze, in parte, semmai.

Lo “Stinking boot” del giornalista sarebbe un già Bel – e ora presunto brutto – Paese allo sfascio a suon di allegra finanza di ministri, bustarelle di passacarte altolocati, tangenti di commendatur e pizzi di capibastone in un cannibalismo politico-sociale che starebbe convertendo l’Italia nell’unica nazione europea occidentale subsahariana.

Il secondo lezzo è l’impressione che gli italiani in Italia abbiano deciso di scaricare gli “italiani che vivono il mondo”. Impressione che sa di invenzione dell’acqua calda, dice qualcuno con uso di due mondi, convinto che il chi-si-è-visto-si-è-visto ci sia da un pezzo. Da sempre.

L´americano dalla penna al curaro – o al “ketchup”, magari meno digeribile per chi a dieta mediterranea aduso – asseriva almeno che l’Italia era stata un’azienda coi fiocchi a pari di Germania e Francia nel bel tempo che fu. Quello, si desumerebbe, della Programmazione o partecipazioni statali sotto la Democrazia Cristiana, mandata tautologicamente a farsi benedire come paternalismo in odore di incenso vaticano dall’ “apertura dell’economia” in omaggio al padreterno Profitto-Superprofitto. Predicato, dacché dollaro è dollaro, dallo Zio Sam, come quinto vangelo. Per alcuni navigati sedicenti “italianologi”, non c’è mai stato un “prima”, paternalista, e un “poi”, menefreghista, ma un perpetuo “durante”, nell’impostazione governativa dell’emigrazione. Cioè coerenza nel mandare l’emigrante per i fatti suoi purché non siano una rottura di scatole, e oltretutto di tasche, per l´Italia. Unica, quasi, eccezione, le rimesse. La valuta di qualsiasi nazionalità spedita in Patria sarebbe segno di italianità Doc.

Del resto, l’espatriato permanente al Plata, per esempio, andrebbe trattato non da italiano, bensí da “argentino nato in Italia,” nella definizione di uno scaldabanco di Montecitorio o giù di lí. Un “campa cavallo…” a regola d’arte, insomma, quanto a pieno riconoscimento dei diritti costituzionali del cittadino all’estero. Comodo, pare, fare di ogni emigrato un fascio di rinnegati, se si è in cerca di bizantinismi a buon mercato per nascondersi dietro un dito, negando o travisando l’essenziale italianità della diaspora. Una maniera di lesinare un’aliquota non risibile della marea di euro donata a titolo di aiuti a popoli dell’Africa, tra gli altri, da governi e sgoverni al Tevere. Quasi che i nuovi connazionali fossero loro. Non da escluderlo, a questo punto. Per africanizzazione mentale – e non solo, visto il bailamme dell’immigrazione illegale – dell´Italia piuttosto che per italianizzazione degli altri.

Se il trapiantato quaggiù è un argentino nato in Italia, il compatriota medio non partito sembra sempre più un non italiano nato in Italia. L’idea che se ne sarebbe fatta l’opinionista USA è quella di una massa senza le idee chiare messasi in mano a un “miliardario capriccioso” che prenderebbe più granchi e cantonate che misure da “premier” capace, quanto meno, a salvare la faccia.

“Catastrofe estetica”, lo descrisse non molto tempo fa il sindaco di Venezia Cacciari, sinistrorso all’acqua di rose. E un attivista repubblicano in Liguria ipotizzò che gli italiani all’estero preferirono la coalizione di Prodi, alle precedenti elezioni politiche, perché “avevano letto le valutazioni della stampa mondiale su Silvio Berlusconi”.

Sarà. Lettura superflua, comunque, quella delle testate internazionali, pur se più spesso abituale tra gli emigrati che tra i non emigrati, perché in non pochi nella diaspora si vede ormai buona parte della classe dirigente e delle classi dirette in Patria come esatto contrario delle affidabilità e operosità non speculativa prevalenti tra quanti decisi o costretti a cercarsi un posto al sole oltreconfine, specie oltreoceano. Da domandarsi dove è, anzi dove sta, l´italianità. Quella che varrebbe la candela. Anche se illumina una certa nostalgia zuccherosa per un´Italia da canzonetta, spesso meno stonata di Sanremo, sostituita da una moderna Italia che rimastica trovate e trovatine anglosassoni come i cavoli a merenda.

Il caso della lingua ha dello spassoso nel confronto tra italiani di qua e di là. Spassoso e spaesante per poliglotti consapevoli di ricchezza e musicalità dell’eloquio di Dante e nipotini. Spaesato chi ricorda la definizione dell’italiano come “lingua toscana in bocca romana” …. e “magara un tantinello de meneghino”, si concede con slancio “de core romano” dall’alto di Trastevere. Tempo, Petrarca, Manzoni, Trilussa sprecati, di questo passo. Come lingua californiana in bocca ex-italiana, si prospetta l´italiano attuale. Addirittura professori di Siena, Firenze, Milano, Roma in trasferta sotto la Croce del Sud erogano a pioggia svariati e svarianti “mix”, “trend”, “target”, “approach”, “checking”, “day school” e via scippando mentre spiegano aggiornati, pardon (meglio “sorry”) “updated”, intrugli della didattica “nostrana”. Da non tralasciare i cronistacci di nera con le loro invenzioni “baby gang” o “baby killer”, nonché gli economisti ai ferri corti con lo “sboom” (il contrario, da antologia, “made in Italy”, di “boom”, se non lo si fosse capito) che fa venire ad anglofoni veraci lucciconi e sghignazzi in un “blend” (sinonimo di “mix” – adeguamoci) di compatimento e sfottò.

Qualche italianista in vena di freddure potrebbe proporre borse di studio e stage a ritroso. Portare italiani di Italia alla capitale argentina per imparare la propria lingua senza innesti stranieri a casaccio. Un po’, o bel po’, di tempo alla locale Dante Alighieri, con insegnanti spesso nati da queste parti ma motivati a padroneggiare e trasmettere un italiano che non se la sente di prendere in giro se stesso. Portare, inoltre, giornalisti esordienti ed esperienti a “risciacquare i cenci in Arno” al Plata, in certe redazioni della stampa di collettività, come TRIBUNA ITALIANA, diretto da un italoargentino nato quaggiù, figlio con le carte in regola della madrepatria quale esponente d’italianità linguistica e altro. Non di quella madrepatria che si ammannisce un “inglese all’amatriciana”, come usa dire sotto metafora. O al pesto, alla carbonara, alla puttanesca. (Tribuna Italiana)

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