IL DISAGIO NELLA CITTA’ DEGLI INTERESSI CONTRO L’ETA’ DELLE PASSIONI

Il senso di colpa e la vergogna: elementi psichici freudiani al vaglio del nostro tempo

Incontro della serie IL DISAGIO INVISIBILE con Silvia Vegetti Finzi e Fulvio Scaparro presso la CASA DELLA CULTURA di Milano

Sembra assurdo trattare del disagio invisibile di fronte a queste manifestazioni visibilissime di malessere (i suicidi, il caso Parini, e la cronaca attuale). Prevenire il disagio è difficile soprattutto nella città degli interessi, come Milano o come altre grandi città. Infatti Milano è al primo posto della produttività della Nazione. Produrre tanto, costa molto caro, non soltanto in termini economici, nel senso che Milano è la città più costosa del mondo e noi donne sappiamo quanto costi il lavoro femminile, ma anche in termini di relazionalità famigliare, difficoltosa anche per quanto concerne la qualità di vita.
Sembra una città senza sogno che vive il suo disagio privata di speranza nel cambiamento del futuro, senza capacità di trasformarsi e potenzialità di rinnovamento. Milano paga in termini costosi questo eccesso di produttività oltre il limite della qualità della vita. Il fatto più rilevante è la mancanza di tempo, l’impossibilità di dialogo con i figli; occorre sempre l’occasione giusta, perché la vita di un ragazzo non può essere riassunta a fine settimana. Adesso i ragazzi non sanno più spiegare il tipo di lavoro, l’impiego del proprio genitore, la cosiddetta new economy non è raccontabile e quindi è venuto meno questo filo rosso di passaggio tra le generazioni, di scambio della visione del mondo attraverso il racconto, la narrazione, giorno per giorno, anche della confidenza dei problemi lavorativi. Così compare una famiglia breve, di poche parole e di vacue speranze. Si dice che i giovani non hanno valori come sostiene il giudice del tribunale per i minori Livia Pomodoro, perché questa è una società che non desidera e non protende a valori alti, a ideali e idealità con un minimo d’orizzonte d’attesa, pochissimo respiro utopico, senza un mondo ideale al quale tendere e quindi anche i valori rimangono testimonianza dello stile di numerose famiglie, con una modalità quotidiana di porgersi, di atteggiarsi, priva di grandi valori da trasmettere, perché dopo il crollo delle grandi ideologie che hanno contraddistinto il secolo scorso, rimane ben poco da porgere in termini di idealità. Si tratta dunque di procedere a vista, di parlare dei problemi di breve durata, di dare esempi di buon comportamento, chiedendo poi ai ragazzi di disegnare una propria soggettività, al di fuori degli schemi della tradizione, perché gli stampi tradizionali di formazione della personalità sono andati distrutte. La mancanza di un’identità generazionale e di un’appartenenza al collettivo vengono meno per l’assenza di momenti di aggregazione, quindi occorrerebbe trovare altri percorsi per la produzione della soggettività, diversi da quelli della tradizione che non valgono più. Così i giovani sono chiamati ad un compito creativo, di generazione e creatività di sé che non è da tutti, perché occorre possedere dei talenti, delle passioni, degli interessi, perché attribuiscono identità al soggetto. Il problema di un educatore è scoprire nel ragazzo i suoi punti di forza, i suoi piaceri, le propensioni, le predisposizioni, il talento, i desideri, il piacere e tutto questo è estremamente aggregante, può diventare quell’elemento intorno a cui si coagula l’identità creativa stessa. Tale processo di personalità autogestita, creativa, mitopoietica dove in fondo ogni ragazzo deve forgiare la sua figura, il suo mito personale, si scontra invece con l’investimento totale della famiglia sulle presunte abilità e i molto reconditi talenti giovanili. Chi riceve la proiezione dell’immaginario altrui si sente gravato anche perché proprio nella costruzione di sé, come atteggiamento riflessivo, porta dentro implicitamente il modo con cui gli altri lo percepiscono e le richieste che gli altri gli pongono e impongono. Subentra il pensiero onnipotente in un’oscillazione ossessiva che tende da un polo di impotenza, a un polo di onnipotenza in cui “tutto subito” è possibile ottenere. In tutto questo manca il procedimento riflessivo, l’autoriflessione, quello che Bion chiama il “punto zero” in cui l’oscillazione di potenza si stabilizza, si ferma, aspettando un equilibrio. Ma nella famiglia comune il tutto risulta molto vorticoso, le richieste e le pretese insistenti, in un incalzare ossessivo e continuo di rimproveri, per cui il punto riflessivo, il punto fermo non si incontra mai. Si avverte questa accelerazione continua delle richieste altrui che in fine vengono interiorizzate quali pretese e fatte proprie. La vergogna è una delle più antiche forme di costruzione dell’identità personale collettiva. La morale occidentale si forma sulla vergogna, diversa dalla colpa, perché colui che ha trasmesso una trasgressione anche se compiuta non intenzionalmente, nel mondo arcaico è ugualmente colpevole perché ha danneggiato la collettività portandovi il miasma, il male, la malattia, che è diventato male della collettività. Come Edipo deve abbandonare Tebe per colpa sua infestata dalla peste. La colpa con il cristianesimo diventa interiore, si interiorizza progressivamente nel “senso di colpa” di cui citava Freud. Esiste un processo di progressiva interiorizzazione del mondo (Freud). Quello che una volta era esterno, viene introiettato progressivamente. La colpa è diventata un’istanza psichica di cui si risponde di fronte al super-io. Ai tempi di Freud la colpa si riassume nello schema edipico e il super-io trasmette un divieto a cui il soggetto risponde con la grande induzione, con l’interdizione assoluta dell’etica antica, con il divieto ancestrale del “Io non devo!”. La famiglia contemporanea è invece più permissiva, più morbida, più ammissiva, molto meno conflittuale. Gli ultimi conflitti sono stati quelli intergenerazionali della contestazione studentesca, ma dopo questo i rapporti si sono come pacificati. Quindi all’ ”Io non devo!” è subentrata un’altra forma di autointerdizione, che è “Io non posso!”, ossia non ce la faccio a rispondere ai desideri, alle aspettative, ai voti dei genitori, con un senso di inadeguatezza, di inanità, di sconforto da parte dei ragazzi che molte volte rinunciano alla contesa, all’affermazione di sé, proprio per mancanza di autostima, per stanchezza, perché sono stati posti di fronte a compiti impossibili, in cui la vergogna si è trasformata in senso di inanità, di malessere, di inadeguatezza, appunto di un disagio spesso invisibile. Occorre rivalutare il senso di vergogna come istanza del limite alle pretese imposte, come un punto fermo del buon senso orientativo verso le scelte, di un saper essere, più che di un saper fare onnicomprensivo ed onnipotente, la vergogna quale significato della realtà interiore che permetta ancora di stupirci, anche se non più adolescenti, di cercare, di credere, di idealizzare, di costruire l’identità pur tenendo presente il confine culturale tra noi e l’altro.

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