di Pietro Iovenitti*
Abidjan, settembre 2008. Ogni giorno una storia diversa e di queste mille ne potrei raccontare. Storie che lasciano cicatrici profonde che lentamente ripercorro ogni volta che mi fermo a pensare.
Venerdì pomeriggio, ore quindici e trenta. Termino un cesareo eseguito a causa di un travaglio troppo lungo e senza alcuna speranza. Stanco dopo una lunga settimana di lavoro ripiego i pantaloni bianchi e la maglietta, la mia divisa da ospedale, saluto l’ostetrica e l’anestesista e mi dirigo verso la macchina che, infuocata, mi attende fuori dell’ospedale dopo essere rimasta quasi otto ore sotto il sole. Mi siedo al posto di guida, abbasso immediatamente i vetri degli sportelli anteriori, accendo il climatizzatore, monto le lenti scure sugli occhiali e metto in moto il vecchio e rumoroso motore della Mazda. Dopo una breve marcia indietro volto a destra, percorro la strada sterrata che conduce al centro di Anyama, passo di fronte al municipio e inizio la discesa in direzione di Abidjan.
Improvvisamente sono costretto a rallentare. Sulla mia corsia vedo a terra una forma immobile, qualcosa dai contorni sfumati che man mano che mi avvicino diviene più chiara. Un uomo accasciato a terra aggrappato alla sua bicicletta. Procedo lentamente e cerco di capire prima che sia troppo tardi. Ho a disposizione una decina di secondi. Un camion carico di grossi tronchi strombazza alle mie spalle e vorrebbe che io accelerassi. L’uomo è accasciato a terra rovesciato sulla spalla sinistra, le sue mani stringono ancora il manubrio della bicicletta e le sue cosce sono serrate intorno alla canna. E’ come se avesse sperato di poter controllare la caduta o di potersi almeno rialzare. Attorno a lui un gruppo di bambini lo fissano ammutoliti. L’uomo riposa a terra con la testa appena graffiata dall’asfalto, gli occhi socchiusi e la bocca serrata. Sembra come se dormisse nel suo letto. Dimostra una sessantina d’anni, ma ne avrà sicuramente quindici di meno. Forse neanche lui conosce esattamente la sua età. Indossa un pantalone e una casacca di colore verde scuro consumata dal tempo, come quelle utilizzate in Cina qualche hanno fa dai quadri del partito dirigente. Dietro la bicicletta, sul portapacchi, è legato con una corda di caucciù un vecchio e affilato macete di ferro. I piedi dell’uomo ancora ben posizionati sui pedali per compiere l’ultimo sforzo, calzano un paio di sandali di plastica blu. Quasi certamente é un contadino che stava ritornando a casa dopo una giornata di duro lavoro. Ho ancora un paio di secondi prima che il camion che mi tallona entra nel portabagagli della mia vettura. In quei due secondi comprendo con certezza che l’uomo é senza vita, stroncato forse da un infarto. Un colpo di acceleratore mi allontana dalla scena e un brivido mi scuote il corpo.
Sono oramai decine i corpi senza vita che ogni giorno incontro sulle strade. Vittime di incidenti, bambini investiti dalle macchine, pazzi abbandonati, donne violentate, banditi uccisi da qualcuno e poveri derelitti. Ma il brivido che mi percorre è sempre lo stesso, anzi sempre più forte. Teste fracassate, teli che coprono vite insanguinate, alberi spaccati in due, carcasse di auto carbonizzate, sirene della polizia, nugoli di gente curiosa, traffico bloccato per ore e alla fine sempre la stessa conclusione. Una povera vita che violentemente ha cessato di vivere e probabilmente di soffrire. E sono tante queste vite, tante storie diverse, ma tutte accomunate da una costante. La sfortuna di essere nati nel posto sbagliato, la maledizione di dover essere dall’altra parte, oltre il confine dei diritti e della legalità, al di là della vita. E sono tante queste storie, milioni di donne e uomini che quotidianamente ci passano accanto e che vorrebbero tanto essere dalla nostra parte, ma dei quali nessuno si accorge non offrendo loro alcuna possibilità.
* direttore Centro ospedaliero “San Luigi Orione” – Anyama
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