Il dilemma ambientale del Brasile

di David Lifodi

Privilegiare la riduzione dei gas serra come leader in tutela ecologica oppure optare per scelte da grande potenza economica? Il paese sudamericano al bivio sul futuro del proprio destino ambientale.

Dare la massima priorità alla riduzione dei gas serra e proporsi come grande potenza ambientale. Oppure scegliere la strada – forse più prestigiosa per scalare i palazzi del potere ma certamente meno etica – degli investimenti e del commercio estero tipici di una grande potenza economica. Il Brasile degli ultimi anni si trova di fronte a questo dilemma, recentemente approfondito in un libro di Claudio Angelo, esperto in Scienze ambientali per il quotidiano “Folha de São Paulo”.

Edita dall'omonima casa editrice Publifolha e intitolata “O aquecimento global”, la pubblicazione dedica un capitolo ai mutamenti climatici, alle conseguenze dell'effetto serra, alle inondazioni, in una parola allo stato attuale dell'ambiente in Brasile. Il titolo del quarto capitolo, “Brasile vittima o carnefice del riscaldamento globale” è certamente appropriato: se da un lato il gigante sudamericano è il quinto maggior produttore di gas serra e assiste quasi impotente alla inarrestabile deforestazione dell'Amazzonia, dall'altro ha spesso adottato misure contrastanti in merito alle tematiche ambientali.

Gli scenari prospettati dal prestigioso Inpe (Istituto nazionale di ricerche spaziali) sono decisamente allarmanti: nei prossimi anni le regioni del Sudest del paese subiranno piogge e inondazioni ogni volta più violente e frequenti. La foresta amazzonica perderà il 30 per cento della sua vegetazione entro il 2100 a causa di un probabile aumento della temperatura di tre gradi centigradi. Infine l'innalzamento del livello del mare di ben 50 centimetri nei prossimi decenni causerà circa 42 milioni di sfollati.

In questo quadro disastroso si creano dunque le premesse per quella che i due più famosi ricercatori dell'Inpe, Carlos Nobre e Marcos Oyama, definiscono la «savanização» del Brasile. L'effetto delle imponenti mutazioni climatiche, spiegano i due studiosi, trasformerà la foresta pluviale brasiliana in una sorta di savana. Uno scenario che li ha spinti a ideare un sistema di vegetazione potenzialmente alternativa, in grado di proteggere il sistema di coltura nel paese e soprattutto l'Amazzonia, che a oggi ha già perso 600mila chilometri quadrati (corrispondenti al 15 per cento circa del suo territorio) un tempo occupati da pascoli e coltivazioni. Una vera catastrofe per la ricca biodiversità per la quale il Brasile è famoso in tutto il mondo e per proteggere la quale il governo alterna scelte positive a altre spesso opinabili.

Il 28 aprile Greenpeace ha consegnato al presidente Inácio Lula una lettera firmata da numerose associazioni ambientaliste nella quale si chiede conto al Planalto di alcuni progetti «anti-Amazzonia», così come sono definiti dai movimenti ecologisti. A finire sotto accusa è la campagna governativa “Floresta Zero” – afferente al progetto di legge 6424/05 – che abbasserebbe la preservazione dell'area amazzonica ufficiale dall'80 al 50 per cento. Strettamente connessa anche la proposta di emendamento costituzionale 49/2006 che intende limitare la frontiera brasiliana di 100 chilometri (dagli attuali 150 a non più di 50), offrendo così alle imprese estere la possibilità di acquistare terre in aree che oggi sono di frontiera.

Se i progetti cosiddetti «anti-Amazzonia» diventeranno realtà, le prime vittime del cambiamento climatico e dell'alterazione della biodiversità della foresta pluviale saranno le varie comunità autoctone. «La stretta relazione di numerosi popoli indigeni con il loro ambiente li rende particolarmente vulnerabili all'impatto del cambiamento climatico», affermano gli studiosi del Minority rights group international (Mrg) di Londra in un rapporto diffuso lo scorso marzo.

Secondo Ishbel Matheson, portavoce di Mrg, «i popoli indigeni hanno conoscenze estremamente profonde del clima e dei suoi effetti su piante e animali, ma adesso il cambiamento climatico sta colpendo il loro modo di vita», costringendoli ad abbandonare le loro terre, talvolta anche sgomberate con la violenza, per fare spazio alle colture dei «biocarburanti».

Sebbene il Forum permanente dell'Onu sui popoli indigeni abbia già sollevato la questione (sia in relazione agli indigeni brasiliani che – tra gli altri – agli afrocolombiani e ai dalit indiani), la posizione del Brasile rimane attendista, stretta tra la volontà di impegnarsi seriamente per l'ambiente ma anche desiderosa di ottenere quel seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell'Onu che potrebbe sfuggire di mano al Planalto nel caso in cui si optasse per una linea di salvaguardia più radicale.

Mario Osava, corrispondente di “Ips Noticias”, spiega come il Brasile avesse inizialmente declinato l'approvazione dei meccanismi creati dal Protocollo di Kyoto nel 1997 che prevedono per le nazioni industrializzate la possibilità di una parziale riduzione delle proprie emissioni verso altri paesi ricevendo in cambio crediti per il carbonio. Nel 2006 però la situazione è cambiata. «Il Brasile ha scelto di creare un fondo costituito da donazioni volontarie», scrive Osava, «per indennizzare gli sforzi dei paesi in via di sviluppo e aiutarli a ridurre il tasso di deforestazione proporzionalmente al volume di emissione di gas serra evitate grazie a queste iniziative».

Per quanto il Brasile possa vantare il possesso di caratteristiche tipiche di una potenza ambientale (foreste pluviali, acqua, biodiversità), non riesce a dare vita a una vera politica sul cambiamento climatico, la cui agenda rimane dettata in buona parte dei casi da emergenze contingenti. A questo proposito si prospettano interessanti i lavori che si svolgono dal 27 al 29 maggio a Fortaleza, dove si tiene l'incontro nazionale della Rete brasiliana che aderisce ad Agenda 21.

Definita dalle agenzie di stampa governative come un «processo partecipativo in grado di coniugare lo sviluppo sostenibile con la crescita economica», l'organismo brasiliano del programma delle Nazioni unite dedicato allo sviluppo sostenibile si è dato l'ambizioso obiettivo di porsi come strumento di democrazia partecipativa e cittadinanza attiva verso il paese, confortato dai dati lievemente migliori sulla deforestazione dell'Amazzonia divulgati dall'Inpe riferiti ai mesi di marzo e aprile.

Il sofisticato sistema di monitoraggio della deforestazione del polmone verde del mondo tramite l'utilizzo di satelliti, denominato TerraAmazon ed elaborato nel 2007 dall'Inpe, ha rilevato una diminuzione di questo fenomeno nella misura dell'80 per cento: l'unico Stato dove la deforestazione ha proseguito implacabile è stato il Maranhão, mentre quello in assoluto più danneggiato nel corso degli anni continua da essere il Mato Grosso.

In ogni caso il coordinatore della “Campagna Amazzonia” di Greenpeace, Paulo Adário, ha commentato positivamente questi piccoli passi in avanti rilevati dal sistema satellitare (secondo la rivista Science «invidiato da tutto il mondo»), anche se dovuti principalmente a una recente maggiore incidenza delle piogge e a fattori climatici contingenti più che a una vera e propria politica sul cambiamento climatico.

E si è discusso di effetto serra e riscaldamento globale del pianeta anche in occasione del Forum internazionale sul cambiamento climatico svoltosi a Brasilia dal 19 al 22 febbraio. All'incontro, cui hanno partecipato i paesi del G8 più le cinque potenze regionali la cui economia è in continua crescita (Brasile, Sudafrica, India, Cina e Messico), sono emerse due novità. Il vertice si è impegnato a ridurre le emissioni di carbonio a partire dal 2012, anno in cui andrà a regime il Protocollo di Kyoto. Inoltre il portavoce della Banca mondiale per l'America latina e il Caribe, Sergio Jellinek, ha insistito sul ruolo del Brasile come paese innovatore in merito alla questione ambientale.

Le dichiarazioni di Jellinek vanno tuttavia prese con la dovuta cautela, avendo egli elogiato i recenti passi compiuti dalla politica energetica brasiliana in materia di costruzione di centrali idroelettriche e di investimenti nei biocombustibili, entrambi ampiamente contestati dai movimenti ambientalisti: le dighe hanno infatti costretto numerose comunità indigene ad abbandonare il proprio territorio (come spiegano gli attivisti del Movimento do atingidos por barragens, da anni in lotta per evitarne la proliferazione), mentre dall'uso scriteriato dei biocarburanti sarebbe derivata la diffusione di un sistema di monocoltura che ha messo in ginocchio i campesinos, quantunque governi di tutto il mondo intravvedano in questi due fattori la possibilità di un concreto cambiamento climatico.

Tornando al capitolo di Claudio Angelo sul Brasile «vittima o carnefice del riscaldamento globale», data la contraddittoria politica ambientale del governo il titolo potrebbe essere modificato in «vittima e carnefice». Se infatti il Brasile proseguirà a mantenersi tra gli stati con la maggiore emissione di gas serra (che significa incidere pesantemente sulla deforestazione), si verificherà quella che il noto Vj brasiliano João Gordo (sostenitore delle campagne di Greenpeace) definisce allarmisticamente «apocalisse ambientale».

Il paese non sarà infatti in grado di affrontarne le eventuali conseguenze su cui ha cominciato a lavorare la Agência nacional de águas diretta da Oscar Cordeiro, il cui limite consiste tuttavia nel concentrarsi sulle sole campagne di sensibilizzazione. Al contrario inquinamento climatico e mutamenti ambientali richiederebbero una politica ecologista radicalmente differente.(www.musibrasil.net)

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