POVERTA’ ED EMARGINAZIONE

Il Convegno organizzato dalla Fondazione Cecchini-Pace apre a nuove riflessioni sul futuro dell’umanità

All’alba del nuovo millennio gli stati membri delle Nazioni Unite si sono riuniti per il Vertice di Millennio al fine di individuare gli obiettivi più urgenti per rispondere alle grandi sfide che affliggono la famiglia umana. Così dopo giornate di lavoro e con una buona dose di ottimismo, hanno indicato nel 2015 l’anno in cui raggiungere una serie di target indicati come obiettivi di sviluppo del Millennio: eliminare la povertà estrema e la fame, raggiungere l’istruzione primaria universale, promuovere la parità tra i sessi e l’”empowerment” delle donne, ridurre la mortalità infantile, combattere l’HIV/AIDS, la malaria e le altre malattie, assicurare la sostenibilità ambientale e promuovere un’alleanza globale per lo sviluppo.
Dal 1980 ad oggi i nati da almeno un genitore straniero sono passati da circa 5000 a 25.000. Ma tra questi bambini sono più frequenti la prematurità, il basso peso alla nascita, la nati-mortalità, la mortalità neonatale e calendari vaccinali effettuati spesso in ritardo o in modo incompleto, soprattutto nelle popolazioni nomadi. Inoltre, in un’indagine condotta dall’Istituto Superiore di Sanità su un campione di donne straniere, è stata evidenziata un’assistenza prenatale ridotta e gravi carenze informative tra le immigrate. Aumentano in modo costante e rapido i casi di Aids tra gli stranieri residenti in Italia, e il trend di crescita si registra anche per i casi di tubercolosi, secondo le ultime ricerche dell’Istituto Superiore di Sanità. La cancellazione del debito rappresenta per l'Africa e per tutto il terzo mondo la strada verso l'uscita da un presente di povertà e per i Paesi ricchi la possibilità di disporre di un nuovo interlocutore economico e politico sul pianeta.
Ambiziosa, su questo tema, la posizione dell'Italia. Tra i paesi che si sono impegnati a eliminare il debito con l'Africa, l'Italia “ha fatto la propria parte”. Davanti a noi abbiamo una priorità drammatica: la lotta contro quel muro di povertà che divide il Nord dal Sud del pianeta e crea quelle condizioni di emarginazione e disperazione da cui traggono origine intolleranza, discriminazioni, ingiustizie e violenza. L'obbligo che abbiamo è batterci senza sosta per quello in cui crediamo, la difesa dei diritti umani, la giustizia sociale, la tutela delle classi più deboli. È il rispetto delle libertà sociali e dei diritti dell'uomo a fare dell'Europa quello che è; sono questi i princìpi che dobbiamo difendere ad ogni prezzo contro qualunque nemico. A Monterrey in Messico si tiene il vertice delle Nazioni Unite per gli aiuti allo sviluppo e, ancora una volta ci si trova davanti al problema della necessità di un miglior governo della globalizzazione per impedire ci siano ancora Paesi espulsi da essa e condannati ad una marginalità disperante. Alcuni intimano di scegliere tra Davos e Porto Alegre e di esprimersi a favore o contro la mondializzazione. Pragmaticamente, occorre proporre un altro itinerario: Doha, Monterrey, Johannesburg.
Il problema non è di schierarsi pro o contro la mondializzazione. La mondializzazione è un fatto. L'isolazionismo non rappresenta un'alternativa valida, tanto meno per un modello sociale ed un sistema di produzione e di scambi come quello europeo. Non possiamo privare né noi stessi né i nostri partner dello stimolo alla crescita economica associato all'apertura dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali. Soprattutto non dobbiamo privare i Paesi emergenti e quelli poveri della promessa di sviluppo che può provenire dal loro commercio con il nostro mondo
Il vero problema è il modo in cui la mondializzazione viene diretta, disciplinata e regolamentata. Come controllare e gestire la mondializzazione in modo che ne possa beneficiare il maggior numero di persone. I mercati generano efficienza e produttività, ma generano anche maggiore instabilità, maggiori disuguaglianze e maggiore esclusione.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), da alcuni anni, definisce con il termine di Human Mobile Population, gli immigrati, i rifugiati, i richiedenti asilo, gli esuli, i lavoratori in transito, i viaggiatori, i turisti, cioè le persone che, a vario titolo, si spostano da un Paese all'altro. Secondo i dati dell'OMS, solo nel 1999 sono state oltre 900 milioni le persone che almeno una volta sono uscite dai propri confini nazionali. In particolare gli emigranti in cerca di lavoro sono stati 135 milioni. Un serbatoio di disperazione in crescita: negli anni Ottanta erano 70 milioni.
È stato affermato che la mobilità è il sale del progresso. In passato si credeva che a spostarsi fossero le idee, mentre le persone rimanevano dov'erano. Oggi è ormai chiaro a tutti che le idee camminano sulle gambe degli uomini.
Tra 60 e 70 mila anni fa, l'Homo sapiens aveva già raggiunto un livello di capacità tecnica tale da adattarsi a vivere in ambienti e regioni molto diverse. Mano a mano che una popolazione cresceva, fino a raggiungere la densità di saturazione, nasceva la spinta a muoversi alla ricerca di spazi vuoti.
La mobilità delle popolazioni ha da sempre caratterizzato tutta la storia dell'uomo, dal suo apparire sino ad oggi ed ha rimescolato costantemente la geografia umana e sanitaria del pianeta.

Il diritto alla salute

L'articolo 32 della Costituzione italiana afferma: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. L'articolo 3 sottolinea che inoltre che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

A livello internazionale il diritto alla tutela della salute è garantito dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, approvata il 10 dicembre 1948 a New York dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. L'articolo 25, 1° e 2° comma, che ci deve far riflettere molto: Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

Migrazioni e salute

Le migrazioni sono fonte di stress e di pericoli per la salute, perché comportano una nuova organizzazione della vita con un conseguente totale sradicamento dall'ambiente di origine, dalle proprie sicurezze. Per tale motivo la tutela della salute dei migranti assume un'importanza strategica, anche nell'ottica di una salvaguardia della salute di tutte le persone a rischio di emarginazione.

Il problema della medicina dell'emigrazione consiste nel dover assistere persone le cui condizioni sociosanitarie si stanno trasformando socialmente e culturalmente. Per quanto riguarda il rapporto tra malattie, sintomi, cultura e affinità etniche, non si sono mai osservate evidenti correlazioni tra specifiche patologie e determinati popoli o etnie.

Questi pazienti presentano un atteggiamento assai diverso dinanzi all'esperienza della malattia, del dolore, della sofferenza e della morte. La diversa percezione dei sintomi in rapporto alle differenti culture di provenienza è valida per tutte le popolazioni. Bisogna tenere conto che spesso gli immigrati usano delle metafore somatiche come la via più breve e facile all'espressione di emozioni e sentimenti altrimenti non comunicabili. Molto spesso accusano sintomi di tipo cenestopatico (cefalea, disturbi digestivi, dolori vaghi e diffusi, prurito, bruciori alla minzione, preoccupazioni sulla propria salute fisica), senza che vi siano riscontri somatici. Il processo di cambiamento cui deve fare fronte l'immigrato richiede una continua messa in crisi della propria identità storica o culturale. Si dirà che l'immigrato sa in anticipo che gli verrà richiesto un adattamento a situazioni completamente diverse e che questo comporterà un prezzo gravoso; non è tuttavia pensabile che l'anticipazione di una sofferenza sia sufficiente per eliminarla.
Nei dodici anni durante i quali si è cercato di assicurare un'adeguata assistenza sanitaria agli immigrati, è stata raccolta ed elaborata una quantità enorme di dati grazie ai quali è stato possibile fare alcune importanti considerazioni. I dati, i numeri, le statistiche sono importanti non solo perché indicano un lavoro svolto, un'esperienza realizzata, ma anche perché rendono conto di persone incontrate, storie vissute, rapporti umani, oltre che professionali: i dati vogliono anche essere uno strumento di confronto, un elemento di riflessione per pianificare adeguatamente scelte di politica sanitaria nei confronti degli immigrati.
La malattia è di per sé elemento emarginante, soprattutto per chi non è in alcun modo tutelato. Pur essendo il diritto alla salute uno dei diritti irrinunciabili per l'uomo, migliaia di persone ne sono escluse. Da questa considerazione si è partiti nel 1983 nell'organizzare un servizio di medicina di base per coloro che non avevano garantita l'assistenza sanitaria pubblica e gratuita, con gli obiettivi di assicurare un diritto a chi non ce l'ha, stimolare le autorità a prendersi carico di alcune problematiche, verificare il fenomeno e individuare le risposte più adeguate, sensibilizzare la comunità, e in particolare il mondo sanitario, a una maggiore disponibilità e solidarietà con gli emarginati. L'emergenza di allora era costituita dalle decine di migliaia di immigrati che vivevano clandestinamente in città.

Altro obiettivo che via via si sta cercando di concretizzare è quello di offrire dei servizi di tipo socio-sanitario anche agli italiani in difficoltà (senza fissa dimora, ragazze madri, malati terminali) nei quali la malattia acuisce uno stato d'emarginazione.

Lo stimolo a sviluppare questi servizi nasce dalla constatazione che lo stato, pur potente nei mezzi e nelle possibilità, spesso è poco sensibile e attento alle minoranze o alle diversità; fornendo risposte standard, di fatto esclude coloro che per vari motivi ne sono ai margini.

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