La violenza psicologica nel lavoro, mediante atti e condotte neutrali o indifferenti.

(Relazione dell’Avv. Luciano Tamburro nel Convegno di Capri 2007 sull’abuso di diritto)

Il mobbing, o harcelement moral au travail, secondo la definizione di diritto
positivo francese, introdotta dall’art. 122-46 della Loi de modernisation sociale
del 17 gennaio 2002, è da quest’ultima definito come: “atti ripetuti che
hanno per oggetto o per effetto un degrado delle condizioni di lavoro,
suscettibile di arrecare pregiudizio alla dignità del lavoratore, di alterare la
sua salute fisica o mentale, di compromettere il suo futuro professionale”.
Secondo la recente sentenza della Cassazione, Sez. V Penale, n. 33624 del
29/8/1997, che ha ritenuto, nella specie, sanzionabile ex art. 572 c.p. la
responsabilità del mobber – ossia dell’autore della molestia psicologica –
configura mobbing “la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga
nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata
all’emarginazione del lavoratore nel luogo di lavoro”.
La condotta di mobbing non consiste, pertanto, in un singolo atto lesivo, né
in una episodicità di condotte, tra loro discontinue in ragione di cesure
logiche, temporali e circostanziali.
Richiede, invece, una pluralità di atti o comportamenti, che se anche non si
configurino singolarmente connotati dai requisiti dell’illecito civile o del
fatto penalmente rilevante, siano convergenti, per sistematicità e durata nel
tempo, nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo (il mobber) verso la
vittima, con l’efficace capacità di mortificare ed isolare quest’ultimo
nell’ambiente di lavoro.
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Sono, dunque, gli elementi della “ripetizione” (cfr. la dizione di “ripetuti
atti”, risultante dal testo dell’art. 122-46 delle disposizioni francesi
sull’harcelement moral) o della “sistematicità” della condotta di
mortificazione della personalità morale della vittima, quale individuata
dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, a configurare il requisito
tipico della condotta di mobbing, ai fini della declaratoria di responsabilità
del colpevole.
Così chiarita la collocazione sistematica della figura, possono riscontrarsi,
all’interno del fenomeno, le seguenti tipologie.
La condotta può essere direttamente realizzata dal datore di lavoro, oppure
indirettamente da esso tramite il personale delegato all’esercizio del potere
conformativo e di controllo sulla prestazione del lavoratore, così
individuandosi la tradizionale categoria del “mobbing verticale
discendente”, o bossing.
Il “mobbing orizzontale”, invece, è caratterizzato dall’esercizio della molestia
da parte di altri lavoratori, privi di preposizione gerarchica nei confronti
della vittima.
Da ultimo, va richiamato il cd. “mobbing verticale ascendente”, che ricorre
nei casi in cui i sottoposti gerarchici di un preposto rivolgono contro
quest’ultimo le azioni persecutorie e di molestia morale.
Con riferimento agli atti e/o alle condotte realizzativi della molestia morale,
la giurisprudenza ha individuato una pluralità di esempi che riconducono,
comunque, a casi tipici, riconducibili all’illegittimità o all’illecito, come le
ingiurie, le critiche pubbliche ai limiti dell’insulto o della diffamazione, la
deprivazione di mansioni, l’uso illegittimo dei trasferimenti, l’adozione di
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ripetuti provvedimenti disciplinari pretestuosi o eccessivi, per addebiti
inesistenti, o di lieve entità, l’abnorme utilizzazione dei poteri di controllo
in caso di malattia, o di verifica dell’idoneità lavorativa.
In tali ipotesi, l’illegittimità, o l’illiceità dei comportamenti presupposti, è
già sancita in ambito ordinamentale a causa dell’infrazione di specifici
divieti derivanti da disposizioni penali, o anche da norme civilistiche, come
quelle degli artt. 2103 e 2087 c.c., o degli artt. 5 e 7 della legge n. 300/1970.
Sotto il profilo penale, invece, sono stati ravvisati, in talune condotte di
mobbing, gli estremi del reato previsto dall’art. 572 c.p., secondo comma,
punito con la reclusione fino a 5 anni.
La giurisprudenza più recente ha fatto riferimento a tale ultima norma, che
si applica a “chiunque maltratta una persona sottoposta alla sua autorità
(…) nell’esercizio di professione o arte”, così individuando la condotta del
datore di lavoro, o del preposto, che eserciti il potere conformativo e di
eterodeterminazione della prestazione del lavoratore subordinato, fuori dai
limiti interni o esterni che ne legittimano l’esercizio, purché essa consista in
atti, o provvedimenti, caratterizzati dall’intento di persecuzione, “a
connotazione emulativa, o pretestuosa”.
Tale ultimo rilievo consente di aprire lo scenario relativo alla complessa
individuazione dei profili giuridici regolamentari degli atti e dei
comportamenti attuativi del mobbing, che si concretizzino secondo modalità
non previamente tipicizzate come illecite, ma, apparentemente, irrilevanti,
neutrali o indifferenti, ancorché ripetitive o sistematiche.
Anch’esse, nella loro apparente liceità, risultano perfettamente compatibili
con la natura indifferenziata e polimorfa di cui può rivestirsi e nella quale
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può concretizzarsi l’intento di molestare la vittima, colpendola nella sua
dignità umana, quale oggetto immediato del pregiudizio, qualunque sia il
mezzo attraverso il quale esso venga inferto.
La Corte Costituzionale, con sapiente intuito, reso manifesto nella sent. n.
359 del 19/12/2003, nel sancire l’illegittimità costituzionale della legge della
Regione Lazio n. 16 dell’11/7/2002, recante “disposizioni per prevenire e
contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro”, per violazione
dell’art. 117 della Costituzione, sui limiti della potestà normativa
concorrente riconosciuta alle Regioni, ha sì censurato la disciplina regionale
del Lazio per aver reso una definizione generale del fenomeno mobbing, che
costituisce fondamento della conseguente illegittimità di tutte le altre
singole disposizioni regionali, ma, nel contempo, ha lucidamente
individuato, nelle condotte in cui, dal lato attivo, si concretizza il mobbing –
sia sotto il profilo commissivo, che nelle ipotesi omissive – che esse possono
“estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri, che in semplici comportamenti
materiali, aventi, in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter
essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di
vista giuridico e, purtuttavia, acquisire, comunque, rilievo quali elementi della
complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e, talvolta, secondo
alcuni, dallo scopo di persecuzione ed emarginazione”.
Stante il richiamo alla giurisprudenza costituzionale, va ricordato, per
completezza espositiva, che la medesima Corte, con le successive sentenze
n. 22 del 27/1/2006 e nn. 238 e 239 del 22/6/2006, ha, invece, respinto le
questioni di costituzionalità sollevate dalla Presidenza del Consiglio dei
Ministri in relazione alle leggi della Regione Abruzzo n. 26 dell’11/8/2004,
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del Friuli Venezia Giulia n. 18 del 9/8/2005, dell’Umbria n. 18 del
28/2/2005, tutte egualmente finalizzate alla tutela della salute psicofisica
della persona sul luogo di lavoro, alla prevenzione ed al contrasto del
fenomeno del mobbing.
In tali casi, la Corte Costituzionale non ha ritenuto che le normative
censurate avessero oltrepassato i limiti dell’art. 117 della Costituzione, sulla
competenza legislativa concorrente riconosciuta alle Regioni, in quanto
ciascuna delle leggi “non formula una definizione del mobbing con valenza
generale, ma ha riguardo soltanto ad alcuni aspetti non esorbitanti dalle
competenze regionali ordinarie ed ancor meno da quelle statutarie
riconosciute alle Regioni, le quali possono intervenire con propri atti
normativi anche con misure di sostegno idonee a studiare il fenomeno del
mobbing in tutti i suoi profili ed a prevenirlo nelle sue conseguenze”.
L’attento rilievo della sentenza della Corte Costituzionale n. 359 del
19/12/2003, laddove ha individuato la compatibilità di reiterati
comportamenti attuativi del progetto lesivo che caratterizza il mobbing con
manifestazioni esterne lecite, neutrali o irrilevanti, ha condotto significativa
giurisprudenza di merito ad accentrare la propria attenzione nel fatto che “il
mobbing è un fatto illecito consistente nella sottoposizione del lavoratore ad azioni
che, se pur singolarmente considerate non presentano carattere di illecito, ma
unitariamente considerate risultano moleste ed attuate con finalità persecutorie tali
da rendere penosa, per il lavoratore, la prosecuzione del rapporto” (così, Trib.
Forlì, 11/3/2005, Ufficio antesignano nell’approfondimento delle tematiche
sulla violenza psicologica sul luogo di lavoro; in precedenza, anche Trib.
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Milano, 26/4/2004, con primi approfondimenti in tema di riconduzione del
mobbing ad atti emulativi).
Di recente, la Suprema Corte, con la sentenza n. 4774 del 6 marzo 2006, ha
ulteriormente individuato che il fenomeno del mobbing non richiede, nella
sua concretizzazione, necessità di comportamenti materiali o di
provvedimenti del datore di lavoro che configurino violazione di specifici
obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro, posto
che il fenomeno, laddove consista in una condotta sistematica e protratta nel
tempo, con caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, può
assumere una connotazione emulativa, idonea a ledere la personalità
morale e l’integrità psicofisica del prestatore di lavoro, tutelata dall’art. 2087
c.c..
Nel caso esaminato, la molestia risultava essere stata perpetrata attraverso
condotte eterogenee, consistenti in parte in “provvedimenti datoriali” tipici
– come il trasferimento, le continue sottoposizioni a controlli medici e le
visite di idoneità, le contestazioni non seguite, poi, da sanzione -, in parte in
“comportamenti materiali” – come la privazione dell’abilitazione all’uso del
terminale informatico -, tutti idonei ad essere valutati unitariamente per la
loro attitudine offensiva verso l’obbligo generale di sicurezza previsto
dall’art. 2087 c.c..
I rilievi che precedono conducono a ritenere che i comportamenti attuativi
del mobbing, come sopra definito, così come, per certi aspetti, della
discriminazione, diretta o indiretta, non si configurino solo come fattispecie
tipiche di illecito o di illegittimità, bensì anche come atti o condotte
apparentemente leciti, neutrali o irrilevanti.
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Occorre, pertanto, indagare su quale inquadramento assegnare, sul piano
sistematico, a tali comportamenti apparentemente leciti, al fine di
individuare i possibili mezzi di contrasto in ambito giuridico.
Tali atti o provvedimenti possono essere sussunti nel concetto di abuso di
diritto, ossia ricondotti all’esercizio di una posizione giuridica per un fine
diverso da quello riconosciuto dall’ordinamento.
Ciò si realizza quando l’atto che ne costituisce esercizio è dotato di una
causa concreta difforme dalla causa astratta ordinamentalmente prevista.
Senonché, tali principi devono essere ricondotti all’interno della struttura –
unilaterale e largamente discrezionale – in cui consiste l’esercizio dei poteri
direttivo ed organizzativo del datore di lavoro, nell’ambito dell’autonomia
tecnico-organizzativa dell’impresa, in relazione alla quale è la buona fede
ad assumere la funzione di limite alla relativa libertà.
La buona fede opera, quindi, come parametro di controllo della legittimità
dei poteri che il datore di lavoro esplica nell’ambito delle prerogative
riconosciutegli dalla legge, sia quale organizzatore dell’impresa – a norma
dell’art. 41 Cost. e degli articoli 2082 e 2086 c.c. -, sia quale soggetto attivo
dell’eterodeterminazione delle prestazioni del dipendente – a norma degli
artt. 2094 e 2104 c.c. -.
In tale ottica, il rispetto del principio di buona fede supplisce in tutti i casi in
cui l’atto, il provvedimento o il comportamento datoriale non siano
tipicamente disciplinati, operando come strumento integrativo ed
autonomo di indagine, per valutare, da una parte e ricondurre, dall’altra,
nei limiti di ragionevolezza e giustificatezza, l’esercizio discrezionale del
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potere datoriale, in funzione della rispondenza delle relative scelte alla
causalità tecnico-organizzativa che lo legittima.
Consegue che, come sostenuto dalla Corte Costituzionale con la nota e
discussa sentenza n. 103 del 1989, sul principio di parità di trattamento, la
totale assenza di apprezzabili e giustificate motivazioni di una
differenziazione di trattamento, sovente riscontrabile nei comportamenti di
mobbing, implica certamente la violazione dei principi di buona fede e
correttezza, ad ogni effetto ripristinatorio e risarcitorio.
Può, pertanto, sostenersi che la valutazione delle condotte datoriali, per
quanto attiene agli atti e comportamenti discrezionali non tipicizzati, dovrà
essere effettuata sulla base dei principi della “proporzionalità” e
“giustificatezza” nell’uso delle relative prerogative.
In particolare, la “proporzione” va intesa come adeguatezza e
ragionevolezza dell’atto adottato, rispetto al fine cui è rivolto, ossia come
strumenti della verifica della coerenza tra le determinazioni datoriali e le
finalità cui esse sono, o si dichiarano preordinate.
In tale contesto, “l’adeguatezza” va intesa – a propria volta – come esistenza
di obiettive e non arbitrarie giustificazioni dell’atto, che non possono
consistere in capricci, né in pretesti, né in arbitrio.
Per quanto attiene, invece, al requisito della “ragionevolezza”, va ricordato
che esso si identifica sostanzialmente nel rispetto del principio di tutela
della parità di trattamento, trasposto dalla sua naturale collocazione
pubblicistica in ambito privatistico.
Esso va inteso nel senso che le eventuali disparità di trattamento debbano
trovare giustificazione, comunque, nell’osservanza del dovere di
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imparzialità, ancorché la giurisprudenza abbia inteso quest’ultimo
essenzialmente in termini strumentali di obbligo di esternazione dei motivi
degli atti sottoposti a controllo.
Valga, al riguardo, il richiamo a quella recente giurisprudenza del Supremo
Collegio che, in materia di licenziamento plurimo individuale per
giustificato motivo obiettivo, ha sancito l’esistenza di un obbligo datoriale
di giustificare, sul piano della razionalità e dell’imparzialità, i criteri di
scelta applicati nell’individuazione delle concrete posizioni esuberanti,
ancorché tale obbligo risulti positivamente prescritto solo in materia di
mobilità.
Tale ultimo principio risulta coerente con il compiuto orientamento
dottrinario sulla concezione causale del controllo dei poteri
dell’imprenditore, secondo il quale, in un’ottica che assegna rilievo sociale
all’attività d’impresa, le scelte organizzative e tecniche si trasformerebbero
da libere in causali, onde assicurare la valorizzazione dell’interesse dei
lavoratori.
Di talché, gli atti stessi produrrebbero legittimi effetti solo in quanto dotati
di “causa giustificatrice adeguata”, valutabile dal Giudice nel suo momento
di rispondenza tra la congruità della scelta adottata rispetto al fine
ordinamentale cui l’atto è precostituito.
Va, al riguardo, osservato che simile linea di pensiero risulta, in effetti,
recepita nell’ordinamento positivo, ad opera dei decreti legislativi 215 e 216
del 2003, nella parte in cui hanno dato attuazione alle direttive CE 43 e 78
del 2000, in tema di divieto di atti discriminatori. E la discriminazione, come
noto, può configurarsi in posizione strumentale attuativa del mobbing.
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In particolare, l’art. 2, 2° comma, lett. b), di ambedue le direttive, nella parte
in cui definisce la “discriminazione indiretta”, esclude che la stessa possa
ricorrere nei casi in cui una disposizione, un criterio od una prassi
apparentemente neutri, ma suscettibili di recare un particolare svantaggio ai
soggetti tutelati, “siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima
ed i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari”.
E’ la normativa europea, pertanto, a positivizzare gli stessi requisiti della
“giustificatezza”, “proporzione” e “ragionevolezza”, quali sopra
individuati, come strumenti di riscontro della legittimità degli atti di
esercizio della libertà di organizzazione dell’impresa da parte del titolare.
In sintesi, tale riflessione risulta coerente con quella corrente dottrinale di
pensiero, ben argomentata anche di recente da Maria Teresa Carinci nella
Rivista Italiana di Diritto del Lavoro (vol. II, anno 2007, pag. 133 e segg.),
per cui, se deve presupporsi che il contratto (come stabilito dall’art. 1325
c.c.) e l’atto unilaterale (quale regolato dall’art. 1324 c.c.) devono
corrispondere alla causa tipica loro assegnata dall’ordinamento quale
funzione economico-sociale e che, per gli atti che concretizzino esercizio dei
poteri e delle prerogative datoriali, la causa vada individuata nella
realizzazione dell’interesse tecnico-organizzativo, consegue
necessariamente che sia ontologicamente illegittimo qualsiasi atto di
esecuzione del potere conformativo o di eterodeterminazione della
prestazione, che si prospetti funzionale ad ottenere un risultato diverso da
quello tecnico-organizzativo, per il quale l’ordinamento ne ha disciplinato
l’esercizio e, quindi, legittimato l’adozione.
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L’abuso di diritto, in tale ottica, ricondotto al tradizionale sviamento della
sua causa tipica, configura limite all’esercizio delle posizioni giuridiche
attive, sia normativamente regolate, che rimesse alla libertà delle parti
contrattuali.
E’, a questo punto, doveroso, sul piano sistematico, il richiamo a quella
forma codificata di abuso di diritto rappresentata nell’art. 833 c.c., che pone
divieto agli atti emulativi, ossia a quei comportamenti che configurino un
esercizio di diritto privo di utilità per il titolare che lo compie ed abbiano lo
scopo, o la funzione, di nuocere, o recare molestia ad altri.
E’ legittimo chiedersi se l’atto emulativo possa consistere – segnatamente nei
casi delle molestie del mobbing – anche in condotte omissive,
indipendentemente dalla previsione del letterale divieto di “atti” previsto
dall’art. 833 c.c..
Laddove si consideri che il vantaggio per il suo autore può consistere, nei
casi di “non fare”, in termini di risparmio di spesa o di risorse economiche,
di mezzi o di energie psicofisiche, è possibile ricondurre anche le omissioni
nell’ambito dei comportamenti funzionali alla realizzazione di persecuzioni
morali.
Basti pensare ad ipotesi preordinate di mancata inclusione del dipendente,
soggetto passivo della molestia morale, nel novero dei destinatari di corsi di
formazione e/o di aggiornamento professionale, dei titolari di facilitazioni,
di fringe benefits, o dall’uso dei video terminali, ecc..
E’ evidente che tali condotte possono risultare idonee ad aggravare la
prestazione di lavoro e di rendere evanescenti le possibilità di sviluppo di
carriera, sotto il profilo della perdita di chances, anche senza configurarsi,
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per le loro modalità attuative, come ipotesi tipiche di discriminazione
diretta od indiretta, difettando, ad esempio, qualsiasi correlazione con
ragioni di sesso, razza, età, apparteneza a sindacati, partiti, fede religiosa,
convinzioni personali, handicap, indole sessuale.
Egualmente risulta coerente, sul piano sistematico, includere tra le ipotesi di
abuso di diritto anche gli atti in frode alla legge, ossia le fattispecie di
utilizzazione di un negozio, in sé lecito, per il conseguimento di un risultato
vietato, mediante la combinazione con altri atti giuridici.
Ad esempio, tanto ricorrerebbe nell’ipotesi di realizzazione di un
sostanziale trasferimento del lavoratore, al fine di allontanarlo da una certa
sede, in assenza delle comprovate esigenze tecniche, organizzative o
produttive, previste dall’art. 13 Stat. Lav. per il legittimo esercizio dello ius
variandi, mediante il ricorso a plurimi e reiterati distacchi in altre sedi,
ancorché per periodi limitati, ma tra loro privi di soluzione di continuità, al
punto tale da realizzare, di fatto, un definitivo spostamento spaziale del
lavoratore per un tempo indeterminabile.
Anche la discriminazione va ricondotta ad ipotesi tipiche di abuso di diritto,
con la particolare notazione che per essa vige un diverso meccanismo di
distribuzione dell’onere probatorio, come disciplinato dall’art. 4 di
ambedue i decreti legislativi nn. 215 e 216/2003, attuativi delle direttive CE
nn. 43 e 78/2000 e dall’art. 4, commi 2° e 6°, della legge n. 125/1991, ora
recepito negli artt. 25, 2° comma, e 40 del D.Lgs. n. 198/2006, secondo cui,
conformemente ad autorevole opinione dottrinaria, sia processualistica che
giuslavoristica, si è inteso disporre, sul piano ordinamentale, un
meccanismo di parziale inversione dell’onere della prova a favore del
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lavoratore, onde alleggerire la sua posizione processuale, in particolar modo
nei casi di discriminazione indiretta.
Al riguardo, appare più preciso riferirsi alla “prova indiretta della
discriminazione”, come letteralmente sancito dall’art. 43, 2° comma, lett. e)
del D.Lgs. n. 286/98, espressamente richiamato dall’art. 2, 1° comma, lett. b)
di entrambi i decreti legislativi nn. 215 e 216/2003.
In tali ipotesi, dunque, competerà al lavoratore limitarsi alla dimostrazione,
anche per sole presunzioni, della sproporzione di trattamento tra il gruppo
cui appartiene e gli altri lavoratori che di esso fanno parte, o altri gruppi,
con correlativo onere datoriale della dimostrazione che tale sproporzione
non esiste e che l’atto è sorretto da causa lecita.
Nel perdurante – e, direi, pervicace – difetto di una normativa nazionale
regolatrice del fenomeno, per tornare all’esame dei profili prospettici
dell’inquadramento giuridico del mobbing nel diritto sostanziale, deve
necessariamente concludersi che l’art 2087 c.c., proprio per la sua
formulazione generale, ma non generica, consente, a differenza delle altre
norme che disciplinano il contrasto di illeciti tipizzati, di ricostruire in una
visione unitaria i comportamenti polimorfi attraverso i quali può essere
realizzata la persecuzione psicologica nel luogo di lavoro.
Nell’ottica della violazione del dovere di sicurezza, risultano, infatti,
sanzionabili atti e provvedimenti che, singolarmente esaminati, non si
presterebbero a censura alcuna, risultando apparentemente conformi ai
principi ordinamentali.
Se, pertanto, la categoria giuridica nella quale va ricondotto il fenomeno del
mobbing è quella dell’abuso di diritto, ed ancora, se può essere condivisa
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l’osservazione secondo la quale la libertà discrezionale del datore di lavoro,
nell’organizzazione dell’impresa e nell’esercizio del potere conformativo,
trova il suo limite nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza, da
correlarsi con i principi di ragionevolezza e di rispondenza causale, può
legittimamente concludersi che il mobbing, come lucidamente illustrato da
autorevole dottrina (Domenico Garofalo, “Mobbing e tutela del lavoratore
tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria”), ancor più che costituire
una categoria residuale di illeciti, configura, invece, una categoria
riassuntiva di tutti i comportamenti atipici, finalizzati all’illecito.
Di talché, la tutela nei confronti dei comportamenti di mobbing consiste nella
volontà di prevenire e reprimere condotte che evidenzino una componente
di pericolosità ed antigiuridicità ulteriore, diversa ed anche più odiosa di
quella espressa attraverso atti vietati dall’ordinamento.
La maggiore gravità della valutazione consegue proprio dall’esteriore
conformità alla legge delle condotte atipiche, nonché dalla loro conseguente
riprovazione sul piano sociale, in quanto sfornite di sanzione.
Non resta che augurarsi, a questo punto, che il cammino parlamentare,
volto all’emanazione di una completa e severa disciplina del contrasto del
mobbing, abbia ad essere, al più presto, ripreso e portato a termine.

Avv. Luciano Tamburro

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